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Set 20, 2012 Cosa bolle in Pentola
Fotogramma dal film Pietà di Kim Ki-Duk, vincitore della Mostra
Sedimentate le prime reazioni alle decisioni della giuria presieduta da Michael Mann, è tempo di descrivere le impressioni suscitate dalla 69^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
La mostra – che dopo l’era Muller vede alla guida il piemontese Barbera – continua a distinguersi per l’intelligente equilibrio tra glamour e ricerca. Tra i film in concorso (e fuori) e nelle rassegne collaterali, non sono mancate opera capaci di aprire discussioni.
Rimanendo ai premiati, Pietà di Kim Ki-Duk, vincitore (quasi) annunciato, conferma come per vincere un festival – ancorché parecchia stampa (non specializzata) italiana fatichi a capirlo, e particolarmente per Venezia – non sia sufficiente fare un “bel film”. Bella Addormentata di Marco Bellocchio – ci torneremo poi – lo era, ma non è bastato. Le corde da toccare dovranno essere sempre più universali e decontestualizzanti, tanto più la cultura europea – per non dire quella nazionale – saranno sempre meno centrali vista l’evoluzione geopolitica del Far East, del Sudamerica, del subcontinente indiano.
Kim Ki-Duk questo propone: la dolorosa narrazione dell’abbruttimento ultracapitalistico, che in una periferia qualsiasi incrocia vicende livide di pedine dalla gelida solitudine, che attraversano il complesso e contemporaneo divenire di quei luoghi, ieri alla periferia della storia, ed oggi impetuosamente sferzati dai venti della globalizzazione. Il suo Pietà non è forse un film gradevole, o un film che ama farsi vedere. È un film, però, necessario.
Bella Addormentata è un buon film. La fotografia, uggiosa si potrebbe definire, di Daniele Ciprì (premiato proprio per la fotografia con l’Osella per il suo “E’ stato il figlio”, che ben ha impressionato in concorso) è la cornice adeguata dei dolenti giorni della fine di Eluana Englaro. Giorni che sono lo sfondo di vicende e personaggi che si incrociano: Piergiorgio Bellocchio, medico che tenta di salvare Maya Sansa (a nostro avviso troppo affascinante per essere credibile nel ruolo della tossica disperata), lo straordinario Toni Servillo, deputato PDL con (si lascia intuire) trascorsi socialisti in crisi di coscienza proprio sul fine vita, e la sua nevrotica figlia Alba Roehrwacher, e Michele Riondino, laico contestatore che la incrocia fuori dalla clinica dove Eluana è ricoverata; Isabelle Huppert, madre di Brenno Placido ed ex moglie di Gianmarco Tognazzi, la cui figlia è in stato vegetativo e che lei, non credente praticante, cura e custodisce dolcemente ed ossessivamente. Bellocchio non giudica: narra, ed in questo sta la sua grandezza di autore, ed il limite: immaginiamo la fatica dei giurati non italiani (tutti, tranne Matteo Garrone) nel comprendere pienamente alcuni riferimenti alla società e al contesto della vicenda.
Alla Mostra Brian De Palma, autore cult per molti, ha presentato poi in concorso il suo Passion: rifacimento del francese Crime d’amour: è un onesto prodotto, con una regia di grande pulizia e classe. Manca però il sacro fuoco dell’opera d’arte, e la vicenda – che vorrebbe essere perturbante (costante il richiamo al doppio, al mascheramento, al Traum) – in realtà si svilisce un poco nel thriller d’ambientazione. Peccato.
Incetta di premi poi per The Master, opera di Paul Thomas Anderson (che ha sfiorato il Leone d’Oro) e Coppa Volpi femminile per la brava Hadas Yaron per Fill the void (Lemale et Ha’chalal).
Matteo Belloni
matteobelloni79@gmail.com
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