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Feb 15, 2011 Attualità, Italia
Dachau
Decidere di fare visita ad un campo di concentramento nazista, ad un gulag, o a qualunque altro luogo che abbia significato morte per migliaia di vite umane, pare spesso una scelta strana, dettata da un senso di macabro voyeurismo. Noi l’abbiamo fatto e crediamo che queste forme di turismo non siano altro che manifestazioni della volontà di ricordare. Il 27 gennaio, si è celebrato il giorno della memoria, perché di fronte a realtà di dolore così grandi, forse l’unica azione di giustizia che può essere perpetrata è il ricordo, il non negazionismo.
La storia di Monaco di Baviera è tristemente legata a doppio filo alle vicende della Seconda Guerra Mondiale ed allo sterminio della popolazione semita. Nel 1933 infatti venne aperto il campo di concentramento di Dachau, situato a solo 17 chilometri di strada dalla capitale della Baviera.
Sorto sulle spoglie di una vecchia fabbrica di polvere da sparo caduta in disuso, Dachau fu il primo vero e proprio campo di concentramento tedesco, che costituì quindi un modello per diverse strutture edificate in seguito. Inizialmente concepito come struttura rieducativa in cui venivano imprigionati gli oppositori politici di Hitler, come tristemente noto, esso finì per essere un carcere per ebrei e minoranze “sgradite”, come testimoni di Geova, omosessuali, emigranti, zingari, prigionieri polacchi, russi e così via. Al suo comando si alternarono i più spietati seguaci del Führer, tra cui Theodor Eicke, che diede forma al rigido regolamento del campo, un regolamento che doveva spezzare la personalità degli internati ed impedire ogni tentativo di fuga e prevedeva pene corporali ed esecuzioni. Nel campo c’erano ad esempio il “bunker”, la prigione dove i detenuti dovevano stare fermi in piedi per molte ore anche solo per una minima colpa. Attorno al campo un fossato, quindi la recinzione con filo spinato elettrificato, ed ancora un altro fossato esterno, pieno d’acqua; impensabile poter scappare e bagnarsi e poi sopravvivere al gelo…senza contare le varie torrette di avvistamento presidiate notte e giorno. Una struttura, insomma, da cui era impossibile evadere con il corpo e con la mente.
Il campo come ci appare oggi ci porta a riflettere, costretti ad un forte bagno di realtà; poco rimane della struttura originale, ma il solo passeggiare e sostare nei suoi spazi smuove qualcosa nel profondo dell’animo. Camminare per le stesse stradine percorse dai detenuti, visitare i luoghi in cui sono vissute e morte così tante persone: anche a distanza di anni su Dachau aleggia un’aria di morte. All’ingresso della struttura di detenzione vera e propria si viene accolti da una scritta sul cancello di ferro: “Arbeit Macht Frei”, “Il lavoro rende liberi”, un macabro ed irrisorio monito; un cancello che si chiude dietro le spalle impedendo di uscire non è mai qualcosa che rende liberi.
Resta in piedi l’originario edificio centrale, dove arrivavano i prigionieri, venivano fatti entrare per procedere alla pratica dell’iscrizione sul registro e della consegna dei documenti (molti ancora conservati e malinconicamente esposti in bacheche); con questo atto aveva inizio il terribile rito della spersonalizzazione dell’individuo. Da questo momento in poi i prigionieri non avrebbero più avuto un’identità, un nome, un passato né tantomeno un futuro. Il tutto veniva sancito con maggiore forza attraverso la consegna delle vesti, perché venissero sostituite con i classici anonimi pigiami a righe. Da quel momento cessava la vita di un uomo come persona ed aveva l’inizio la sua esistenza come semplice numero, meccanismo intercambiabile di una tremenda macchina di morte.
Al centro della struttura, poste una dinnanzi all’altra con un rigore terrificante, le baracche-dormitorio, con i letti ammassati ed un gelido lavatoio al centro dove non vi era poi molta possibilità di privacy. È stato calcolato che l’intera struttura potesse contenere 3.000 persone, ma che al momento della liberazione ne “ospitasse” ben 28.000; la maggior parte dei decessi avvenne proprio per epidemie di tifo diffuse a causa delle scarse condizioni igieniche, o per denutrizione e freddo. Alto anche il tasso di suicidi, gente mossa dalla disperazione più nera che preferiva concludere di propria volontà quella vita fattasi insopportabile. Non mancarono chiaramente le esecuzioni, violente e di massa…quasi impensabile in tanto orrore credere che le camere a gas, le terribili ed opprimenti docce, in realtà non fossero mai state messe in funzione. I forni invece, nel corso degli anni furono addirittura raddoppiati a causa del progressivo aumentare del numero dei morti. Negli ultimi tempi nemmeno più si riusciva a cremare tutti i corpi che si ammassavano e per questo venivano scavate delle fosse comuni dentro le quali venivano gettati i corpi a marcire. Soggiornarono a Dachau personaggi dai nomi di Wilhelm Beiglböck o Claus Schilling, ai quali la scienza deve un “grande contributo”: il 22 febbraio del 1942 ad esempio, iniziarono nel campo sperimentazioni su vasta scala, ed i medici vennero incaricati di testare gli effetti sull’organismo umano della permanenza ad alta quota e della caduta improvvisa da una grande altezza. Per non dimenticare, anche se ci piacerebbe, gli studi per cercare i vaccini per alcune malattie mortali come la malaria. La serie di prove solo nella seconda metà di maggio 1942 costò la vita a circa 200 detenuti. Sono state ritrovate alcune immagini piuttosto eloquenti che documentano gli esperimenti che vennero condotti nel campo, immagini fredde e scientifiche per mostrare lo svolgimento di meri omicidi.
Il senso di questa fotografia degli orrori commessi in passato, un passato nemmeno troppo lontano, è conservarne la memoria. Ricordare è il miglior modo perché fatti simili non accadano mai più…ma purtroppo la crudeltà umana non ha confini, soprattutto quando di mezzo vi sono interessi economici e di potere…Angola, Costa d’Avorio, Congo, Nigeria, Somalia, la lista dei conflitti che attualmente si stanno combattendo nel mondo è ancora lunga. Guerre in cui gli scontri a fuoco si accompagnano ad azioni di genocidio, a stupri, a pulizie etniche e a violenze di ogni genere. Non tacere, non chiudere gli occhi, ma denunciare i soprusi è il minimo che si possa fare.
Barbara Pellegrini
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