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Ago 01, 2014 Attualità, World Wide
Roma, dal corrispondente
Si può scegliere di raccontare una notizia narrando gli eventi oppure, viceversa, si può provare a fare un discorso più ampio che analizzi le ragioni che hanno causato i fatti. Fatti che hanno portato a quei morti che oggi si contano in Palestina e che, per rispetto, avrebbero almeno diritto alla verità. La verità però ha l’inconveniente di non ragionare per logiche politiche. Troppo spesso il primo ostacolo per chi voglia parlare della questione israelo-palestinese è quell’accusa di antisemitismo che pende sulla testa di chiunque osi mettere in dubbio la versione ufficiale di come si svolsero gli eventi. E poco importa che i cosiddetti “nuovi storici” – che hanno dato un grande contributo alla rilettura critica della storia israeliana – siano proprio ebrei di Terra Santa.
Ancora prima di cominciare, poi, bisognerebbe ricalibrare il termine “antisemitismo”, anzi sostituirlo con quello di “antisionismo”. Semitiche sono anche le popolazioni arabe ed è quindi inesatto confondere i due concetti. Nel secondo termine non ci sono connotazioni razziali ma politiche: essere antisionista è più che legittimo, antiebraico è semplicemente da cretino. È il sionismo, con la sua ideologia, alla base dei danni che oggi paga la popolazione palestinese, non gli Ebrei in quanto popolo. Confondere le due diverse componenti, una politica e l’altra etnico-religiosa è pericoloso e fuorviante. Ma a volte utile per mischiare le acque. Un altro problema è l’apatia con cui viene accettata passivamente la versione della fondazione dello Stato ebraico. Questo dato è comprensibile soltanto alla luce di un fatto altrettanto indicativo: i Palestinesi non hanno una loro storia. Non essendo riconosciuti come popolazione (“una terra senza popolo per un popolo senza terra” era lo slogan del manifesto sionista), come potrebbero avere una storia ufficiale? Bisogna partire da questa considerazione per analizzare la situazione attuale, per comprendere come abbiano fatto circa 800.000 Palestinesi a ritrovarsi senza una terra da chiamare casa e chiedersi come siano riusciti a sopportare questo trauma ogni giorno da 70 anni circa. È possibile vivere in un campo profughi per tutta una vita e lì far crescere i propri figli senza cadere nella tentazione della vendetta? È giusto negare i diritti minimi, anche quelli di movimento rendendo la vita dei profughi ancora più dura e poi indignarsi se qualcuno si ribella? È giusto che quanti rimasti nell’odierna Israele vengano considerati cittadini di serie B e provare fastidio quando le tensioni richiamano l’attenzione (poca a dire il vero) internazionale? La responsabilità di Israele sta tutta in queste domande e la rabbia degli Arabi si rinforza per le risposte mai date. Ripetere che furono gli stessi Palestinesi che volontariamente decisero di lasciare le proprie terre non ha più senso, come non ha più senso negare i tragici eventi che avvennero in quegli anni e che si configurarono come vere e proprie espropriazioni con tanto di episodi di violenza efferata. Oggi è possibile ricostruire come effettivamente andarono i fatti e come, in maniera sistematica, venne pianificata quella che Ilan Pappé, storico israeliano, definisce “pulizia etnica della Palestina”. Una nuova storiografia resa possibile grazie all’apertura degli archivi israeliani e inglesi per il periodo relativo ai fatti in questione. C’è inoltre, una vasta letteratura che rende l’immagine di un popolo, quello palestinese, che lungi dall’aver dimenticato la propria patria nonostante in molti non l’abbiano neanche mai vista, chiede che la propria storia non venga dimenticata o, peggio ancora, revisionata¹. Quella dei sionisti in Palestina si configurò come una vera e propria colonizzazione – con tutto ciò che questa comportò anche in termini di approccio mentale verso il colonizzato²- ai danni di una popolazione che a dispetto di quanto si è voluto far credere era presente e viva con una sua identità affermata³. Un dialogo che voglia portare ad una pace durevole, non può prescindere da questi argomenti e presuppone un passaggio doloroso per tutto il popolo israeliano che lo concili con la propria storia. Una storia che, tralasciando l’attendibilità o meno della fonte biblica usata come pietra angolare per la fondazione dello Stato, ha ben poco di religioso.
¹ il sito http://www.arablit.it/ dedicato alla letteratura araba offre lista di titoli da cui cominciare l’avvicinamento a questa materia.
² “gente in via di degenerazione” (cit. in Morris 2001: 61), “razza […] ipocrita e falsa” (ibidem).
³ sull’argomento consultare quanti giornali nati in Palestina trattarono l’argomento nei primi anni del ‘900.
Luca Arleo
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