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Set 25, 2011 Attualità, World Wide
Riprendiamo la pubblicazione di “storie di vita vissuta” dalla Cambogia.
Smey, direttore di Osborne House, ci ha accompagnato fino al confine per salutare i suoi amici, soldati di frontiera di cui lui faceva parte, sembrava che andasse a salutare vecchi compagni di scuola e orgoglioso ci ha presentato quello che era il suo capitano, viso sorridente ma silenzioso, se ne è stato lì a fumare le sigarette che gli avevamo portato. Smey ha 40 anni e per quasi 30 anni la sua vita è stata condizionata dai Khmer Rossi. Ha vissuto fino a 17 anni con suo padre e la sua famiglia in diversi campi profughi al confine con la Thailandia e anche se erano molto poveri è riuscito a sopravvivere a quel periodo infernale e ha sempre avuto qualcosa di cui sfamarsi. E’ riuscito ad arrivare fino all’ottavo grado della scuola statale, per il passo successivo mancavano i maestri a quel tempo, vittime dell’ideologia insana di Pol Pot, uccisi forse da quello stesso uomo che Smey chiama padre ma che si è scoperto essere il secondo marito di sua mamma, sposata durante gli anni in cui si è perpetrata la tragedia cambogiana. La gente non parla volentieri di quel periodo ma è storia il fatto che, una volta liberato dal Vietnam, il governo cambogiano abbia messo al potere, e soprattutto a capo di fabbriche e villaggi, quegli stessi uomini che occupavano altrettante posizioni sotto il comando di Pol Pot. Molti erano stati costretti, molti non sapevano che altro fare per sopravvivere se non abbracciare la causa, molti si sono pentiti e sono stati risparmiati e graziati… non si poteva uccidere tutti, il popolo cambogiano sarebbe stato sterminato.
Anche il papà di Smey doveva essere uno di loro, un Angkà forse, leader del villaggio che gli era stato assegnato e probabilmente in quel periodo aveva conosciuto la mamma di Smey. I matrimoni allora, durante il regime, venivano celebrati solo in gruppo, fino a venticinque-trenta coppie alla volta e i promessi stavano seduti su due linee parallele, una di fronte all’altra, finché arrivava il capo del villaggio e si alzavano tutti insieme prendendosi per mano e promettendo davanti a lui. Non c’era nessun tipo di documento scritto, anche se Pol Pot in effetti faceva riportare tutto in modo quasi ossessivo, ogni vittima rinchiusa in luoghi di tortura e di prigionia come il Tuol Sleng veniva fotografa e schedata prima di essere uccisa. Anche i matrimoni seguivano l’ideologia malata del dittatore e se una delle due persone in una coppia tradiva l’altro e quindi andava contro la sacralità della promessa pronunciata, venivano uccisi entrambi, moglie e marito, la colpa era di tutte e due e tutti e due, uniti forse nella buona sorte, ne condividevano la cattiva. ( continua…)
Federica Adamoli
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