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Mag 31, 2010 Terza Pagina
C’è stato un momento, anni fa, in cui il mondo è sembrato correre velocissimo. Un momento allo stesso tempo di stasi, per certi versi – finite le vecchie dinamiche sociali e politiche, ma non ancora cominciata la fase ultra-contemporanea in cui oggi ancora siamo. Era un momento in cui il fallout della bomba nucleare punk aveva appena cominciato a depositarsi, e in cui gli spacciatori di successo e felicità di Wall Street non erano ancora saliti alla ribalta come homines novi.
In quel momento, tra “Manhattan” di Woody Allen e gli accordi di Camp David, sotto i riflettori transitarono quattro piccoli ragazzi di Manchester che avevano deciso di formare una band: fu solo per alcuni istanti, ma la proiezione delle loro ombre sarebbe rimasta impressa nella storia per molti anni a venire. Capelli corti, divise da College britannico, un nome dalle tristi rimembranze naziste: Joy Division (alias le squadre di donne ebree forzate a prostituirsi all’interno dei lager). Il leader per diritto divino del gruppo è indiscutibilmente Ian Curtis, cantante, chitarrista e autore; per i giornali una reincarnazione di Jim Morrison – per tutti una voce del mondo nuovo, una flebile ma potente luce di candela.
I suoi testi, poesie di ossidiana in cui emerge quel lirismo da apocalisse urbana già caro a Philip K. Dick, e di cui “Blade Runner” di Ridley Scott sarà di lì a poco la sublimazione, si incastrano alla perfezione in quello scorcio di secolo sopra descritto – e d’altronde non avrebbe potuto essere altrimenti. Fossero nati qualche anno prima, i Joy Division sarebbero stati visti come una deprimente parodia di Alice Cooper, fossero nati qualche tempo più tardi sarebbero potuti sopravvivere solamente aumentando le distorsioni delle chitarre – e comunque oggi sarebbero dimenticati dai più. Momento giusto, influenza trascendente. Come sempre. E questo tanto più è vero se si guarda al lato musicale e all’estetica complessiva della loro opera. Due album riuscirono a pubblicare prima del tragico finale, ma tanto è bastato: primo fu “Unknown Pleasures”, un prodotto ibrido e dai contorni irregolari, un Gollum musicale che tra i suoi rabbiosi singulti tuttavia già celava un’invincibile scintilla di bellezza fredda; a seguire venne “Closer”, che già dalla foto di copertina (scattata nel Cimitero monumentale di Staglieno di Genova) si presenta come compimento della Joy Division esthetìque: armonie e ritmi solo apparentemente zoppicanti ma in realtà elementi perfettamente calcolati dell’opera, atmosfere di decaduta e gelida eleganza. Su tutto, ciò che scaturisce dai dischi e dal gruppo stesso è un’estetica, anche figurativa, completamente nuova, clonata dalle ceneri del punk attraverso una sintetizzazione del tutto artificiale. Negli anni a venire, tutti (registi, scrittori, stilisti di moda..) dovranno con essa confrontarsi.
Oggi, maggio 2010, si ricordano i 30 anni esatti dalla morte di Ian Curtis – e l’alba è sempre più sfumata.
Enrico De Zottis
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