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Mag 28, 2011 Attualità, World Wide
New York City
Spesso gli Stati Uniti e il Regno Unito danno i natali a talenti musicali irripetibili, che varcano tutti i confini possibili. Basti pensare ai Beatles, Rolling Stones, Miles Davis, Bruce Springsteen, Jackson Browne e tanti altri. Poi ci sono talenti diversi, grandi, ma più deboli, che fanno tanto, ma arrivano meno al grande pubblico. Uno di questi, Gil Scott-Heron, è mancato in questi giorni a NYC, aveva sessant’anni e ancora tante cose da dire e da scrivere. Un talento selvaggio Gil: un poeta sensibile, un musicista di raro talento, inventore di spoken word, la poesia che viene detta su basi musicali. E’ stato anche uno degli inventori del rap, suonava la chitarra e il pianoforte, cantava con una voce che trasmetteva brividi di ghiaccio tagliente. Era anche un maledetto bastian contrario, paladino di un determinato attivismo ultra militante afroamericano. Chi scrive ha avuto la fortuna di seguire due suoi concerti ricchi di mood, di partecipazione, di giovani e meno giovani che si guardavano con dolcezza, uno a Londra e l’altro proprio a New York, che era diventata la sua città di adozione, dopo aver lasciato la sua città natale, Chicago e aver girato un pezzetto d’Europa. L’abbiamo anche intervistato dopo quei due concerti. Davanti a due bicchieri di bourbon si era parlato di tutto e soprattutto di razzismo, il suo cruccio e continuo dolore. Nella sua carriera Gil Scott-Heron ha scritto almeno due libri degni di nota: Small Talk at 125th and Lenox e So far, so good.
Per quanto riguarda la musica, vogliamo citare almeno tre brani indimenticabili: The Bottle, We almost lose Detroit e il suo inno, un pezzo che ha ispirato i tre quarti dei grandi nomi della musica popolare nel mondo, The Revolution Will Not Be Televised.
Gill Scott-Heron, una perdita per la cultura afroamericana e per gli manti della musica di tutto il mondo. Un nome da seguire, anche nell’Italia gravosa di oggi.
Hi, Gil, RIP, I hope to meet you again.
Mauro Pecchenino
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