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Ago 25, 2014 Attualità, Italia
Un ritratto di Robin Williams
Roma, dal corrispondente
La morte di Robin Williams, tragica come tutte le morti premature e violente, permette nuovamente a tutti gli addetti ai lavori, ai colleghi attori e ai semplici appassionati di vite degli altri di mettersi a parlare del perché lo abbia fatto e di come avrebbe potuto evitare una tragedia che, si legge su tutti i giornali, sembrava quasi annunciata. L’addetta stampa conferma i problemi che lo stesso Williams spiattellò all’opinione pubblica anni fa, e lo stesso, condito con qualche informazione sullo stato economico/lavorativo, sottoscrive un suo non meglio specificato amico. A non essersi accorti di questo baratro in cui pericolosamente si era cacciato l’attore sembrano, a questo punto, essere stati soltanto i familiari che candidamente ammettono di non capire come abbia potuto arrivare a tanto. Il ritratto che il giorno dopo il fattaccio esce dalle pagine dei giornali è quello di un uomo ipersensibile, genialoide, ma un po’ troppo incline a trovare riparo alle brutture del (suo) mondo nelle droghe e nell’alcool. Un uomo che, come tanti prima e dopo di lui, ha ceduto al male oscuro. Un uomo, punto. Spellarsi le dita sulle tastiere per descrivere quanto importante sia stata questa persona e quanto bene abbia fatto all’umanità ogni suo singolo lavoro, porta inavvertitamente a cadere nell’errore di identificare il personaggio con la persona. Mork con Robin. E sinceramente troviamo la cosa un po’ ridicola. Faceva il suo lavoro e lo faceva bene. Ma non era il suo lavoro. Nessuno si stupirebbe se un falegname, bravissimo nel fare librerie e comò, decidesse di farla finita. Lui costruiva sogni, e fino a che ha potuto lo ha fatto nel migliore dei modi. Per rispetto sarebbe giusto non caricare la sua morte di una responsabilità maggiore di quella che dovrebbe avere. Quasi allibiti alcuni del fatto che un uomo che ha curato i malati a suon di risate abbia potuto cedere alla depressione come fosse un comune mortale. Ma lui era un comune mortale. E non era un dottore (a tal proposito mi chiedo se un gesto del genere lo facesse il vero Patch Adams quale risonanza avrebbe sui media mondiali). Altri ricordano come il Peter Pan di Williams abbia fatto tornare bambini anche quelli che (per citare Saint-Exupery come la figlia Zelda in un tweet di saluto al padre) dimenticano di esserlo stati, e non si capacitano di come proprio lui non sia riuscito a trovare la forza per spiccare un ultimo volo che lo allontanasse dalla corda. Ma la polvere di fata non esiste, e non esiste neppure l’isola dove Peter si riparava. Esiste invece Hollywood che a detta di molti non deve essere proprio un posto per anime delicate e a ben vedere non devono esistere neppure gli amici che Peter sembrava poter vantare nel film. Il fatto è che la depressione è tristemente democratica e le prede spesso sono gli insospettabili. Tu li guardi e sembrano invincibili, ti sposti per vederli meglio e ti accorgi che non esistono per come appaiono. Così è stato per Williams, per Heath Ledger, per Amy Winehouse o, guardando nel giardino di casa, per Luigi Tenco. Sembrerà banale, ma la tristezza non ne fa mai una questione di soldi. Il mondo è pieno di signor nessuno, quelli che condividono con le star di cui sopra soltanto il fatto di soffrire della medesima malattia e troppo spesso il triste epilogo della storia. Ci chiediamo, e non c’è assolutamente nessun intento polemico, se potendosi incontrare e condividendo i propri pensieri, queste due facce della stessa medaglia avrebbero qualche giovamento oppure no. Magari potrebbero vedere aspetti della propria vita – banali nella loro ovvietà – esaltati da chi non ne conosce il significato. Ma il nostro è soltanto un pensiero, senza alcuna velleità scientifica. L’unico aspetto, invece, che non riesce a lasciarci in pace di tutta la storia è quel tweet scritto per i 25 anni della figlia. L’aspetto umano che, per un attimo, sovrasta quello artistico. Questo, di tutto quanto, è il tarlo che ci gira in testa. Pochi giorni prima di arrivare al suicidio, le aveva augurato buon compleanno chiamandola “la mia bambina”. Non capiamo, da padre proprio di una bambina, come abbia potuto trovare la forza di lasciarla sola sapendo che molto probabilmente anche lei si chiederà lo stesso, forse incolpandosi, pensando a cosa avrebbe potuto fare per salvarlo. In questo che scriviamo non c’è un giudizio, ma soltanto tanta tristezza nel sapere che l’unica persona che aveva diritto a conoscerlo come tale, non avrà più il suo eroe. E questo, lo diciamo, ci dispiace. Da padre a padre.
Luca Arleo
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