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Giu 25, 2018 Cultura, Teatro & Cinema
L’osteria è vuota verso le sette del mattino, nessuno occupa i banchi di legno sventrati dai tarli e scoloriti dalla sporcizia: Sui tavoli le carte da gioco, disposte a mazzi, ordinatamente, riposano in attesa di quelle manone nere che la sera le fanno scivolare tra i bicchieri di vino rosso e di birra di marca scadente.
Sul pavimento c’è una pulizia casalinga frutto di energici colpi di granata che la proprietaria, donna robusta e decisa, riserva alle opache piastrelle su cui si posano decine di piedi infilati in scarponi, che poco hanno di delicato e gentile. Le pareti, rinfrescate ogni annoda poderosi passaggi diu pennellessa intrisa nella pittura azzurrina comprata a poco prezzo al banchetto dei colori del mercato del giovedì, sono decorate con piatti raffiguranti scene di caccia e vecchi quadretti ingialliti con visi dalle espressioni stupite e smarrite. In un angolo, un quadrettino di legno scuro porta la scritta “Nessuno racconta più balle del cacciatore a valle”. Le sedie hanno la ferma e rassegnata consapevolezza di chi è comandato a svolgere un ruolo preciso: devono accogliere, come oasi solitarie e tanto desiderate, i corpi stanchi di gente che ha lavorato e sudato tutto il giorno convinta di poter occupare alla sera una buona sedia su cui abbandonarsi a bere e a sghignazzare. Le finestre sono troppo piccole per permettere allo sguardo di vedere cosa c’è al di là dei vetri. Il soffitto ha uno strano colore che sembra grigio, ma forse è giallo o nero o marrone, insomma, il soffitto ha un colore indefinibile che non si riesce a decifrare. Il bancone di mescita è azzurrino nero, con strane macchie e strani segni sopra. In un punto, verso la fine di uno spigolo, c’è una scritta ottenuta incidendo il legno con un coltellino: “Qui si sbronzò Quintin, uomo che amò sempre un bicchierin”. Quintino, animo di poeta, è un buon vecchio che vive solo in un buco di una stanza più cucinino, nella parte del paese denominata ‘il borghetto’ e che è in realtà un anfratto angusto dietro due o tre orti di proprietà del trattorista più famoso della zona. Sul bancone i bicchieri e le bottiglie sono i capi indiscussi del territorio. Ogni dieci centimetri c’è un bicchiere colmo di vino rosso. La proprietaria, donna Faustina, ha la corporatura di un baldo scaricatore in perfetta salute. Si muove, parla, urla, gesticola, ride e scherza con tutti. Età, mah, potrebbe avere cinquant’anni, ma potrebbe averne anche settanta. Chi lo sa? Si sa che è vedova, che è avara, ma che ha da qualche parte un bel gruzzolo che tiene nascosto in un buco segreto della sua casa che si erge autoritaria sopra l’ingresso dell’osteria.
I suoi clienti, già, una bella categoria di uomini grossi, alti, piccoli, magri, con i capelli nerissimi o bianchissimi, sembrano a guardarli bene un po’ tutti uguali: corpi stanchi bisognosi di calore e di affetto. Tra i clienti c’è anche il Buff, un personaggio enigmatico che pare abbia una singolare capacità: sa guarire i malati di ‘mal d’ossa’ toccandoli e massaggiandoli con le sue mani nodose. Il Buff, il suo vero nome nessuno l’ha mai saputo, avrà circa sessant’anni, è tarchiato, ha i capelli corti e radi e il volto solcato da rughe che si diramano in varie direzioni senza mai incontrarsi. Indossa sempre un completo giacca e pantaloni di velluto marrone scuro con sotto una camicia a quadri rossi e verdi, al collo un fazzoletto scuro e calza sempre scarponi da montagna. Appena entra in osteria si fa annunciare dall’odore del suo sigarotto, che l’accompagna per tutta la giornata (continua)
Mauro Pecchenino
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