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Mag 16, 2021 Attualità, World Wide
Il calcio è un esempio di vita? Molti appassionati hanno sempre pensato di sì al punto di identificare il tifo per la loro squadra con il proprio destino personale. Incarnazione di un’appartenenza, svanita in altre attività umane e dissolta nell’irrisolutezza di vite condannate alla semplice rincorsa al consumo, luogo del grande scambio per giustificare il vuoto di esistenze senza un’altra meta. Il calcio, quindi, ha rappresentato (e rappresenta) un simbolo di come ci si pensa, di come ci si voglia mostrare all’altro da sé, incarnando, stampando sulla propria pelle, i colori di una bandiera con cui non si condivide, spesso, neanche un’origine territoriale. Non si tifa per la squadra per nascita in un territorio o per le radici familiari. I flussi migratori che caratterizzarono il periodo dello sviluppo economico, ad esempio, designerebbero ben altre geografie della tifoseria se poggiassero su tali valori. Allora il tifo calcistico divenne strumento d’integrazione territoriale per chi era stato sradicato dalla propria terra e doveva trovare un senso di appartenenza in comunità che lo considerava un estraneo, ostile. Tifare la stessa squadra degli “altri del posto” ci poteva far sentire di nuovo parte di un qualcosa che ci era stato tolto con l’obbligo della migrazione. O spesso rappresentava solo la voglia di potersi sentire vincenti, forti, “al comando” almeno in un ambito che poteva rappresentarci di fronte all’altro. “Io sono della XXXX….”, tratto di identità e autorappresentazione.
È su queste basi che i 3 club del nord (ma non solo) hanno costruito la loro egemonia di massa. A ben vedere la struttura, potremmo dire, ha una forma frattale e quindi riproducibile verso l’alto come il basso, ma non è questo il punto. Certo tutto poggiò su chi aveva già compreso, molto prima dell’avvento della televisione di massa, che investire nel calco rendesse molto in termini di consenso e intoccabilità. Gli antichi romani avevano già insegnato alla Storia, quanto fosse importante far divertire le masse e il calcio “industriale” rappresentava la famosa “killer application”. Le regine del calcio italiano, che poggiavano la loro potenza sugli apparati industriali del Nord, le famiglie del salotto buono del capitalismo italiano, impostarono le regole e le forme della loro supremazia, ma senza preoccuparsi più di troppo che senza le cosiddette comprimarie non sarebbe stato reale il loro gioco permanentemente squilibrato. Sugli squilibri concreti di tale rappresentazione è sufficiente assistere, prendendola a caso, ad una delle trasmissioni della Domenica Sportiva (del cosiddetto servizio pubblico). Ma tutto questo è parte di quel mondo in Transizione che la maggioranza delle persone (e passi) e dei politici (e questo non è più giustificato e giustificabile) continuano ad ignorare: Nulla sarà più come prima!
L’esemplificazione è chiara. Nel dibattito sulla Transizione, spesso mi viene contestato: tu ci dici che Intelligenza Artificiale, Robotica, Blockchain cancelleranno moltissime professioni e lavori, creando un crollo del modello di distribuzione della ricchezza e del Welfare costruito attorno al lavoro salariato, “ma se le persone non potranno più consumare, i padroni non potranno fare i soldi e quindi non è nel loro interesse affamare la gente” (scusatemi la sintesi brutale e schematica di osservazioni ben più complesse e argomentate, ma lo faccio solo per esemplificare…).
Bene, la Rivoluzione della SuperLega ci spiega il processo!
La società che si affaccia sarà sempre più una società a due livelli: quelli inclusi e quelli esclusi. Comprendo che, visto dalla parte del cittadino della classe media occidentale, questo schema possa risultare incomprensibile. Siamo cresciuti nella “società dell’inclusione”, la famosa società dei 2/3 (quella in cui 2 persone su 3 erano all’interno dello schema lavoro salariato/modello di Welfare – che significava una sorta di “pienezza di diritti” -). Nella nostra mente non c’è spazio per la comprensione che possa esistere una società che poggi sulla maggioranza di persone che siano “escluse dal diritto al consumo”. Solo che il mondo, quello fuori dalle mura dell’occidente, non ha mai funzionato così. Eravamo noi l’eccezione e la nostra eccezione poggiava non solo nella nostra “ingegnosità”, nel nostro saper fare e nel nostro impegno (che a livello individuale non sono mai mancate, certo, come non mancano, sempre a livello individuale, anche nel mondo che consideriamo sottosviluppato, anzi, lì le condizioni sono ancor più difficili per mancanza di presupposti che qui diamo per scontati e obbligatori) ma su una potenza di dominio fatta di finanza e armi. Cioè, il dominio di potenza che ha fatto poggiare il nostro livello di vita sulla precarietà di vite altrui. Spesso abbiamo riconosciuto come nostri leader persone che ci garantivano questa condizione a danno di altri, altri che ci rifiutavamo di vedere in quella situazione per nostra stessa mano e interesse.
La rottura della Transizione, quella aperta dalla crisi del 2008 e resa comprensibile alle masse con quella della Pandemia, spinge quel precario equilibrio di una manciata di decenni, oltre il confine fin qui sperimentato e il calcio, come spesso accade ai grandi fenomeni sociali, rende esplicito, leggibile alle grandi masse il salto di qualità, la discontinuità del processo in atto. Le società della SuperLega dicono chiaramente cosa nasconde la loro scelta: il sistema è fallito e noi proviamo a rilanciare, proviamo a portare alle estreme conseguenze cose che in nuce esistevano già nei campionati nazionali. Provare a mantenere in piedi lo show necessita di soldi e di una struttura della divisione della ricchezza, generabile con il calcio, che non possiamo più condividere, anche se nella maniera squilibrata fatta fino ad oggi, con altri. È questa la brutalità di chi non vuole prendere atto che serve un cambio di sistema condiviso e oltre le regole esistenti e prova a restare all’interno del meccanismo di accumulazione precedente ma garantendo solo a pochi l’uso delle risorse vere. Il resto si può aggiustare con le briciole e chi sopravvive bene e chi non potrà… farà i conti con la regola della Distruzione Creativa di Shumpeteriana memoria.
Potremmo soffermare la nostra analisi su come si sta configurando la nuova struttura del calcio, di quali forme abbia preso l’accordo tra i famosi club fondatori, se dietro ci sia una delle OTT del digitale o una delle Telco; di quali implicazioni possa avere per i campionati nazionali. La cosa che vedo, però, è che prestissimo questa scelta diventerà mondiale e che una qualche multinazionale si sostituisca alla FIFA o renda questa struttura una sorta di succursale, di serie B. D’altronde è questo lo stesso destino che sta accompagnando le vecchie strutture decisionali della politica. I processi della Globalizzazione, prima, e dell’apertura della Transizione, poi, segnalano che ciò che è mutato è il sottostante, le fondamenta della vecchia forma di società, con il suo modo di produzione del valore, i suoi soggetti sociali, le sue forme di rappresentanza, le sue istituzioni. Una Transizione, infatti, è sempre accompagnata da una Rivoluzione, un cambio di soggetti al comando e la sostituzione delle forme delle regole, mai in maniera lineare, ma sempre con un andamento entropico, cioè con un verso di marcia che impedisce un ritorno al passato. È un cambio del e nel “Potere”, nella sua rappresentazione e coscienza di sé.
La metafora di ciò che sta accadendo nel calcio, infatti, può essere traslata perfettamente alla politica. Pochi sanno prendere atto dell’apertura della Transizione e di ciò che significhi, della fine degli equilibri pre-esistenti e dell’apertura della lotta per il “nuovo potere”. Spargono a piene mani rassicurazioni e ristori, sperando di illudere persone, classi sociali e anche i “ceti medi”, attraverso un mantra: tutto tornerà come prima.
Rischi calcolati, ripresa dei consumi, ritorno alla normalità, crescita sembrano essere più rassicurazioni che le vecchie classi al comando fanno a loro stesse che programmi politici che è possibile realizzare. Volenti o nolenti la Storia umana è caratterizzata da rotture che producono salti, anche se non sempre in avanti. Talvolta, come il mito raccontato dal Platone del Timeo e Crizia ricorda, anche la totale distruzione d’intere civiltà. Tutto sta a come ci si colloca nelle Transizioni e verso quale esito si spinge. Le premesse di chi è stato al potere fino ad oggi non promettono nulla di buono, ma non serve demonizzarle con richieste di fermare la Storia o, addirittura, di ritorno ad un “buon tempo andato” che non solo è il passato ma che non era tale per tutta l’umanità e per il pianeta.
Ciò che serve oggi è l’idea di un futuro diverso, alternativo a quello che loro stanno costruendo.
Sergio Bellucci
Saggista e Giornalista
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