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Dic 04, 2014 Terza Pagina
«Il caso è chiuso, mon ami». Così la più grande giallista di tutti i tempi, Agatha Christie, aveva pensato di liberarsi di quel “fardello” (termine usato da lei per descrivere quello che Poirot alla fine aveva rappresentato per l’autrice stessa) già nel 1942 – anno della stesura di “Sipario” – portando un Poirot ormai vecchio e stanco alla morte dopo aver risolto il suo ultimo caso. Le parole, rivolte al suo più fedele amico, il capitano Hastings, hanno chiuso per sempre la pluriennale storia di questo geniale investigatore nel 1975, anno di pubblicazione del titolo. Almeno questo pensava la scrittrice. Il fatto è che, per usare una metafora, se vuoi liberarti di un re, devi essere sicuro di poterlo uccidere; viceversa, questo si prenderà la sua rivincita. E quella di Hercule Poirot, che a differenza di Agatha Christie non teme le pagine del tempo, si è consumata a distanza di circa 40 anni dalla dipartita di entrambi. La sua fama ha superato quella della sua scrittrice e un po’ come la creatura di Frankenstein, vive ormai di vita propria.
È stata, difatti, data alle stampe da qualche mese una nuova avventura dell’investigatore belga, Tre stanze per un delitto di Sophie Hannah, che ha lasciato la maggior parte degli appassionati della saga un po’ attoniti. Premettiamo che da amanti eccessivamente romantici, abbiamo deciso stoicamente di non leggere né guardare la trasposizione televisiva dell’ultima avventura di Poirot: i miti non muoiono e qualora lo facciano semplicemente, non accettiamo la cosa. Tecnicamente, quindi, il ritorno in auge del personaggio dovrebbe farci felici; ma così non è. Poirot, come tutti i miti della letteratura, è figlio di un determinato tessuto sociale e storico che lo ha portato a diventare quello che tutti conosciamo. Le sue manie e le sue paure, la sua particolare attenzione al fattore umano così come la sua inflessibile condanna morale per gli assassini , sono tutte componenti specifiche di un determinato contesto che l’autrice, più che lo stesso Poirot, viveva in prima persona. In un articolo letto pochi giorni fa su di un blog (seguendolequatore.com), questo aspetto che intreccia la storia con la letteratura, è trattato in maniera complessiva e mette in risalto proprio il modo in cui la realtà vada ad albergare anche in racconti fantastici (Poirot per certi versi è un supereroe a cui mancano gli addominali e il mantello) rendendo così gli stessi specchio involontario – ma solo per i personaggi – dei tempi. Agatha Christie visse a cavallo delle due guerre mondiali e tanto Poirot, quanto Miss Marple, portano sulle loro pelle i segni dei conflitti: lui è un esule che cerca riparo in Inghilterra e rifiuta fermamente l’uso delle armi; lei ha perso il suo amore in guerra e di lui le resterà solo il ricordo di uno struggente saluto consumato in una fumosa stazione. Davvero Sophie Hannah pensa di poter riscrivere tutto questo e di far tornare quest’anima all’interno dell’ispettore con la testa ad uovo? Che senso ha scomodare il grande Hercule? Se fossero poi questioni editoriali e, quindi, di soldi, ancora peggio. Poirot ha sempre avuto poco a che fare con i soldi, un vero signore non ne parla né li maneggia.
Lasciamolo in pace. Lasciamolo alle sue zucche, alle sue rose (una porterà anche il suo nome), ai suoi amici e, perché no, al pensiero di quella donna che gli regalò la spilla che in ogni suo abito fa bella mostra di sé. Chiunque avrà voglia di sapere qualcosa in più su di lui, potrà sempre guardare “Being Poirot”; documentario in cui l’attore, il superbo David Suchet, ripercorre con un pizzico di romanticismo il suo rapporto privilegiato con l’investigatore più dandy della letteratura.
Luca Arleo
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