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Mar 26, 2015 Attualità, Italia
Roma, dal corrispondente
La Cina dà lezioni di teologia al Dalai Lama e gli ricorda il dovere di reincarnarsi e lui, per tutta risposta, dice che al momento la cosa è in forse e che se dovesse decidere di farlo, probabilmente la scelta ricadrebbe su un neonato occidentale.
Per un funzionario del governo cinese il Dalai Lama è un irresponsabile, se non proprio blasfemo, in quanto vorrebbe interrompere arbitrariamente una tradizione secolare di reincarnazioni; per il Primo ministro del governo tibetano in esilio, al contrario, permettere alla Cina di pronunciarsi in merito alla successione sarebbe come concedere a Fidel Castro la possibilità di decidere il nome del prossimo Papa cattolico.
Quella che potrebbe sembrare una discussione surreale – la Cina che spinge affinché si perpetri una tradizione religiosa – porta con sé conseguenze politiche molto serie. Innanzitutto è bene chiarire che l’attuale Dalai Lama, il XIV, appartiene ad una delle tante scuole che affollano il panorama Buddhista – la Geluk – e che soltanto questa lo riconosce come leader spirituale. Il ruolo politico che ricopre non ha difatti connotazioni di fede, ma è frutto di un’eredità storica che affonda le origini nell’appoggio che i Mongoli diedero al suo predecessore (il V Dalai Lama) e alla sua scuola quando arrivarono in Tibet, ponendo così le basi per il primato politico che mantenne fino all’invasione cinese del 1950.
La sua battaglia pacifica per l’indipendenza di Lhasa da quel momento va inquadrata in questo contesto e alla luce del suo ruolo ormai soltanto onorario (nel 2011 ha rinunciato a qualsiasi carica cedendo i poteri al Primo Ministro Lobsang Sangay). Allo stesso modo va interpretata l’ingerenza che Pechino mostra negli affari legati alla successione del leader: controllare la prossima reincarnazione fiaccherebbe le pretese indipendentiste del popolo e di conseguenza aiuterebbe a far calare il silenzio su una questione fastidiosa per la Cina anche a livello mediatico.
Ora il problema – che preoccupa gli ambienti tibetani e stuzzica le voglie del gigante asiatico – sta nel fatto che inesorabilmente si avvicina il giorno in cui sarà necessario individuare il successore di Tenzin Gyatso (questo il nome dell’attuale Dalai Lama), ruolo che spetta ad un determinato monaco (il Panchen Lama) nominato proprio da Tenzin e che risulta scomparso dal 1995, quando aveva appena 6 anni (Gedhun, questo il nome del ragazzo oggi 25enne, secondo Pechino vive e studia nel suo tranquillo anonimato).
Dopo la sparizione, il partito si premurò di rimpiazzare il ragazzo con un monaco di investitura statale – Gyaincain Norbu – ovviamente non riconosciuto dalla controparte, ma che al momento è tecnicamente l’unico disponibile e titolato per individuare la XV reincarnazione. Il rischio che le autorità tibetane sanno di correre è che si arrivi alla nomina di un successore del Dalai Lama con il solo Panchen Lama “cinese” in grado di potersi pronunciare e sebbene questo manchi di un riconoscimento ufficiale da parte delle alte sfere Geluk, non sarebbe difficile per i vertici del partito imporre la propria versione dei fatti e poter disporre in libertà della massima autorità di Lhasa. Nominarne un altro al posto dell’introvabile Gedhun sarebbe una soluzione, ma visto che anche per il Panchen vige il rigido protocollo della reincarnazione, la nuova nomina sarebbe possibile soltanto nel caso in cui il precedente fosse dichiarato morto. E non avendo informazioni certe a riguardo, la strada resta impraticabile.
Unica alternativa a questo punto sarebbe quella prospettata dal Dalai Lama e cioè interrompere il ciclo delle rinascite e lasciare tutti con nulla in mano. Questo impedirebbe a Pechino di mettere bocca sulla successione anche se al prezzo di privare della guida spirituale milioni di fedeli.
L’ipotesi suggestiva di reincarnarsi in un neonato occidentale poi, avanzata sempre dal Tenzin, sarebbe affascinante in quanto, oltre a sottrarre lo stesso dalla longa manus cinese, ripercorrerebbe involontariamente la storia narrata da Bernardo Bertolucci nel film “Il piccolo Buddha” che a questo punto, nell’attesa degli eventi, vale la pena rivedere.
Luca Arleo
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