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Set 30, 2014 Attualità, Italia
Roma, dal corrispondente
Ora che gli ultimi, preoccupanti, dati sul presunto numero dei militanti dello Stato Islamico sono stati resi noti, gli USA e con loro diversi Stati europei e arabi, hanno deciso di intervenire per spegnere il fuoco prima che sia troppo tardi.
È difficile assistere indifferenti al dilagare di violenza che si sta verificando senza avere un sussulto di rabbia, questo è chiaro. Ma imbracciare il fucile senza avere ben chiaro in mente cosa fare e come farlo, potrebbe rivelarsi l’ennesimo errore di calcolo. Ridurre al silenzio questo autoproclamatosi califfato non sarà facile, ma presumibilmente neanche impossibile per una coalizione altamente specializzata e armata nel migliore dei modi. Il problema, quello vero, comincerà subito dopo. Qual è la strategia per il dopo? C’è una road map per uscire dal guado possibilmente senza lasciarsi nuovi problemi alle spalle? Debellare il “male” ha senso se al paziente verranno assicurate cure tali da evitare ricadute. Al contrario, lasciare il corpo in preda a nuovi probabili virus, renderebbe vano lo sforzo, più aggressiva la nuova malattia e – particolare non trascurabile – un malato molto arrabbiato. Bisogna lavorare sulla grande maggioranza di persone, irachene e siriane, che cercano tranquillità, per sé e per le loro famiglie. Il modo in cui questa serenità si declinerà, però, sono affari che devono necessariamente riguardare soltanto i diretti interessati. Intervenire contro un massacro è lecito, ma rovesciare dittature o sabotare governi, decisamente no.
La nostra stessa storia dimostra come anche la cultura occidentale sia stata attraversata da conflitti sanguinari e ripensamenti filosofici prima di potersi dire democratica e laica. Processi che hanno richiesto una loro gestazione prima di trovare la luce. Imporre una tempistica alla storia è faticoso oltre che inutile ed Egitto e Libia sono esempi perfetti in questo senso. Ci vuole tempo e fiducia nella parte maggioritaria della società.
Capire, quindi, cosa fare prima di farlo. Il rischio a cui andiamo incontro, altrimenti, è quello di cominciare nuovamente un conflitto che verrà percepito (o fatto percepire alla popolazione) come l’ennesimo scontro tra due mondi opposti, a totale svantaggio di quello che invece deve essere l’obiettivo: dare un’immagine dell’occidente diversa da quella che da un paio di centinaia di anni stiamo trasmettendo ai popoli arabi.
Lasciare insomma il “fardello dell’uomo bianco” ben chiuso in un ripostiglio e, anzi, tornare a guardare un po’ di più alle nostre cose.
Mai come oggi la nostra stessa casa è sotto attacco – parliamo di attacco culturale – e lo dimostra il numero sempre crescente di islamici europei e americani (di seconda generazione o convertiti) che hanno abbracciato la causa siriana o jihadista in generale. La mancanza di obiettivi da una parte e il buonismo di certa politica dall’altra, ha portato a un annacquamento culturale che è il vero nervo scoperto della nostra società. A preoccupare non deve essere il numero di quanti partono per combattere una causa che credono giusta, ma il fatto che la causa in questione è l’opposto di quello in cui noi crediamo: diritti umani e rispetto dell’uomo. Se anni di lotte hanno prodotto questo corto circuito, non sarebbe opportuno rivedere l’approccio verso il problema prima che sia troppo tardi?
Il dato oggettivo va ben oltre quello numerico e svela un albero – l’occidente – che sta perdendo le proprie radici mentre è intento a fare in modo che i suoi rami arrivino sempre più lontano.
Luca Arleo
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