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Set 22, 2011 Attualità, Italia
Chi scrive fa parte della schiera sempre più nutrita di studenti italiani (circa 18.000 solo nel 2008/2009) che scelgono di proseguire il loro percorso di studi all’estero. Molteplici le ragioni di fondo: l’ambizione, la speranza di garantire quel valore aggiunto tanto ricercato al proprio CV, tale da farlo spiccare tra la massa di candidature, la voglia di apprendere e migliorare la lingua o semplicemente l’opportunità di studiare seguendo programmi didattici lontani da quello italiano. Tutto ruota in pratica intorno a futuro, aspettative e sogni. Ma a quale stadio della carriera universitaria si lascia il belpaese? C’è chi azzarda una carriera universitaria all’estero, direttamente a partire dal primo anno e chi invece coglie l’occasione data dal famigerato (e sbagliato, all’italiana) sistema “3+2” di combinare la triennale in Italia con un master/specialistica in un’altra nazione. Queste sono solo due delle strade intraprese. Tra le altre opzioni c’è chi decide di circoscrivere temporalmente la propria esperienza all’estero, prediligendo programmi come l’erasmus o l’exchange della durata media di un semestre o chi invece preferisce il gap year, anno sabbatico speso notoriamente in viaggi, che spesso e volentieri viene invece occupato lavorando. Le considerazioni si susseguono l’un l’altra, dinamicamente, allora, ci chiediamo, cosa aspetta i nostri connazionali una volta oltrepassato i confini nazionali alla luce di ciò che in prima persona stiamo sperimentando? La diversità di approccio, specialmente mentale, per chi sceglie di emigrare è sconvolgente. Restare in ascolto delle vite di ognuno, parlare con gente proveniente da ogni parte del mondo, è disarmante. Un esempio chiarirà il concetto: primo giorno di master e docenti che, anziché illustrare programmi di studi e modalità d’esame, evidenziano l’abilità (richiesta e data quasi per scontata) degli studenti di sapersi districare tra studio, lavoro e vita sociale senza comprometterne nessuna. Studio intelligente, collaborazione e partecipazione attiva quindi la fanno da padroni, per non rischiare di sprecare neppure un minuto del proprio tempo libero. A ciò si aggiunge che la maggior parte dei ragazzi che incontriamo ha un impiego nel più dei casi part-time, vive e si mantiene da solo dall’età di 18 anni. Il cambio di focus fa pensare, rimuginare e mettere in discussione me stessa, esperienze e background. E così, al tavolo di una caffetteria, apprendiamo spontaneamente a conoscere noi stessi attraverso l’altro. Ciò che prima appariva come l’unico modo (e perciò il più giusto) di relazionarsi con l’ambiente circostante viene scardinato brutalmente in un momento, da profonde intuizioni. Mi accorgo che lingua e metodi di studio differenti sono le due contropartite più blasonate e facilmente rintracciabili e che la curiosità sia il cuore pulsante del cambiamento. Credo sia bello ammettere che, in fin dei conti, globalizzazione e internet non ci abbiano ancora sottratto il piacere di conoscere e metterci alla prova personalmente. Il mondo, quello vero, è fuori dalla porta di casa. Il difficile, a volte, è ammetterlo.
Claudia Cazzato
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