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Giu 15, 2014 Attualità, World Wide
Kigali (Rwanda)
Rwanda: uno dei paesi più piccoli del continente africano e il più densamente popolato. Caratteristica questa che gli è decisamente costata cara.
Lo scorso aprile, infatti, la popolazione rwandese si è fermata a ricordare quel genocidio assurdo che vent’anni fa, ha reso i Tutsi (si, proprio i Watussi ” che dall’Equatore vedon per primi la luce del sole ”) e gli Hutu, due delle etnie africane più tristemente conosciute nella nostra parte di mondo.
Agli occhi di un Abasungo (‘uomo bianco’ in lingua locale) che oggi decide di visitare il Rwanda, il paese appare come è e come era: le pays des mille collines. Kigali, la capitale, si sforza di mostrare una parvenza di modernità, con i suoi coloratissimi cartelloni pubblicitari e il caos del traffico negli orari di punta. Ma quando fuori dalla città la strada asfaltata finisce ( e vi assicuriamo che finisce molto presto), tutto quello che vedi è terra rossa, bananeti verdissimi, campi coltivati ad ananas e capre. E tanti, davvero tantissimi bambini, che da ogni angolo ti guardano e ti additano e che per una volta fanno sentire te come ‘diverso’. Spesso abbiamo sentito dire che il Rwanda è un paese fortunato perché nonostante tutto è ricco di acqua. Come sa bene chi è solito muoversi in questi Paesi, una delle scene che vedi sempre, costantemente, tutte le volte che esci di casa, è quella dei bambini che a qualsiasi età, con i loro vestiti usati, provenienti da chissà quale parte del mondo, camminano lentamente alla fontana più vicina (spesso qualche chilometro come minimo) con le loro tUniche gialle. Perché proprio gialle non lo sappiamo.
Parlare del genocidio con gli abitanti è altamente sconsigliato. Anche se il governo si impegna nella costruzione di memoriali (che come spesso accade, raccontano solo un parte della storia e compiangono solo una parte delle vittime) e proclama l’abolizione delle etnie, è il silenzio a fare da padrone. Le persone tacciono. I Paesi occidentali che furono direttamente coinvolti tacciono. Solo alcuni preti coraggiosi, se hai la fortuna di incontrali, parlano tra un sorso e l’altro di birra di banane, ma non senza le lacrime agli occhi. E ti raccontano di scene al limite dell’immaginabile.
Crediamo che la domanda da porsi ora sia questa: è stato fatto qualche passo avanti rispetto a vent’anni fa?
Dubitiamo, purtroppo. Perché finchè non si rifletterà sinceramente, senza assolvere nessuno, finchè si faranno distinzioni anche tra le suore che devono gestire case per i poveri, finchè quando passi per strada continuerai a provare a indovinare se la persona davanti a te è Hutu o Tutsi, a seconda che sia alto o basso o abbia il naso schiacciato, l’ombra del genocidio continuerà a rimanere sotto gli alberi di banane, in silenzio.
Martina Schenetti
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