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Quando l’ultimo giorno di concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, nella sala del Palabiennale, l’imponente struttura che ospita le proiezioni per gli appassionati a pochi passi dall’esclusivo red carpet, si spengono le luci per il secondo film della serata, una parte del pubblico che aveva assistito a “Es-stouh (Les Terrasses)” – pellicola di grande pulizia filmica del regista Merzak Allouche, penalizzata senz’altro dal calendario – è già uscito. L’opera proiettata, fuori concorso, è “Che strano chiamarsi Federico”, docu-film sul grande Federico Fellini, a firma di uno dei maestri del nostro cinema, il novantenne Ettore Scola.
Probabilmente quella parte di pubblico non aveva neppure intuito che sarebbero stati proprio i documentari a segnare con forza la 70^ edizione della Mostra. Con “Sacro GRA”, denso resoconto del mondo che circonda e vive il grande raccordo anulare che cinge Roma, laureatosi Leone d’Oro con la regia di Gianfranco Rosi. Con “Amazonia”, che ha l’onore di chiudere ufficialmente la serata del sabato, e la rassegna intera. E soprattutto con questo dono che Scola ha regalato al pubblico veneziano (e dal 12 settembre nelle sale di tutto il Paese).
L’inizio dell’ora e mezza dell’opera è il racconto, in un raffinato bianco e nero, dell’arrivo del diciannovenne Federico Fellini (un Tommaso Lazotti poco azzeccato nella fisicità, ma perfetto nella dizione), per lavorare nella redazione del “Marc’Aurelio”, giornale satirico in grande voga al tempo (siamo negli anni ’40). La carriera del giovane Fellini si dipana poi lungo le collaborazioni come sceneggiatore, sino alle prime regie (come “Lo sceicco bianco”). Sua ombra, e ammiratore, il giovane Ettore Scola (Giacomo Lazotti), di undici anni più giovane. Un rapporto che viene poi rievocato più avanti nell’opera, nel raccontare di lunghe gite notturne dei due, ormai anziani, attraverso la Roma più nascosta, e l’incontro con tipi che definire “felliniani” sarebbe quanto mai azzeccato (compreso un Sergio Rubini madonnaro pugliese fuori sede).
Scola regala poi un sapiente montaggio delle pellicole del regista riminese, alternate a oniriche fughe della stessa figura felliniana: pure dalla sua camera ardente, alla quale due solerti carabinieri in alta uniforme – come per un novello Pinocchio – vorrebbero ricondurlo.
Varrebbe la visione, infine, il prezioso frammento dei recuperati provini di Sordi, Gassman e Tognazzi per il “Casanova” del 1976: tutti e tre straordinari, istrionici e allo stesso tempo così profondamente fragili nel mettersi a nudo davanti al maestro (che per la parte sceglierà invece l’algido Donald Sutherland).
Bene ha scritto Eugenio Scalfari di questo documentario che è pienamente film, e che allo stesso tempo riconsegna una narrazione documentaristica efficace: “Dico soltanto – scrive Scalfari – che era difficilissimo muovere la macchina da presa in quel groviglio del quale la biografia e l’autobiografia costituiscono l’ossatura che sorregge il racconto d’una generazione e di un Paese. Per questo dico che non è semplicemente un film ma un’opera, di cui Scola non è soltanto il regista ma l’artista che l’ha creata”.
Matteo Belloni
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