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Nov 23, 2015 Attualità, Italia
Roma, dal corrispondente
Difficile in questi giorni non parlare o scrivere dei terribili fatti di Parigi. Difficile non provare compassione per le vittime e per quanti, a seguito degli attentati, hanno visto la loro vita frantumarsi in mille pezzi.
Mariti senza mogli e viceversa o – peggio ancora – figli senza genitori, sono un risvolto non meno drammatico delle morti stesse.
Le reazioni sono evidentemente scomposte, e a chi prova a ragionare sui motivi di questi accadimenti, fanno da contraltare quanti invece auspicano una reazione muscolare che possa colpire senza pietà i mandanti.
La prima cosa che viene fuori dai commenti rilasciati a caldo, tanto da una parte che dall’altra, è la scarsa conoscenza dell’universo di cui si parla.
Abbondano le semplificazioni ad uso e consumo di Facebook. Non si contano le frasi ad effetto di quanti vorrebbero un Consiglio di Sicurezza dell’ ONU guidato da un duro e puro sullo stile di Chuck Norris, opposte a quelle dei pacifisti per forza, quelli che non userebbero i militari neanche se arrivasse Devil Man in persona a minacciarli, quasi a dimenticare come lo scontro – che piaccia o meno – faccia parte della politica mondiale praticamente da quando ad abitare la terra erano in due.
Poi c’è tutta la demagogia a rimorchio, quella di quanti nei giorni successivi hanno tenuto più volte a precisare come gli europei abbiano in maggior considerazione la sorte dei francesi piuttosto che quella delle ragazze nigeriane, o dei morti russi, di quelli libanesi di Beirut o degli ultimi in ordine di tempo, i poveri ostaggi dell’Hotel assaltato da un gruppo terroristico nella capitale del Mali. Alla lista potrebbero essere aggiunti poi gli yemeniti, i palestinesi, e gli stessi ebrei uccisi in questi giorni in attacchi comunque riconducibili ad atti terroristici.
Hanno tutti lo stesso valore? Perché, ci si chiede, non si mette sulla propria pagine Facebook la bandiera di tutti questi posti? La differenza sta nei numeri?
No, la differenza non sta nei numeri, non sta nell’importanza degli uni sugli altri, e nemmeno nella fede di quanti rimasti uccisi; una volta morti, siamo davvero tutti uguali.
La vera differenza sta nel fattore culturale e, in parte, in quello geografico.
Per la maggior parte degli europei la guerra è nella migliore delle ipotesi un lontano ricordo da esorcizzare, ma molto più spesso niente altro che qualcosa di letto, visto e sentito, ma mai – fortunatamente – vissuto. L’insicurezza che in determinate zone del mondo si respira non è minimamente comprensibile da chi nasce in Europa dagli anni 50 in poi, soprattutto se nella sua vita non ha avuto la possibilità o la voglia di visitare alcuni paesi anche a noi affini storicamente e geograficamente.
Tutti i discorsi che in situazioni analoghe a questa di Parigi sentiamo fare riguardo le dirette responsabilità dei nostri Governi in tali conflitti, sono nella grande maggioranza dei casi vere ma non cambiano la sostanza del vissuto del singolo cittadino di Roma, Berlino o Barcellona.
Questo si ripercuote evidentemente nella reazione che un fatto come quello di Parigi (o di Madrid e Londra) ha sul comune sentire di un qualsiasi europeo. La Francia è casa. Ma è casa per un italiano come per un tedesco o uno spagnolo. Come sarebbe casa Roma o Vienna per un belga o un olandese. La percezione è che qualcosa di terribile sia successo nel nostro spazio privato, in quello spazio considerato fino a qualche anno fa inviolabile e solo da poco messo in discussione da questo tipo di guerra anomala.
Chi non capisce le motivazioni di questa asimmetria sentimentale è inutilmente demagogico e poco realista. A Tunisi morirono molti europei, trucidati come bestie, eppure nonostante lo sgomento, non ci fu una mobilitazione simile a quella vista per Parigi proprio per il posto in cui ciò avvenne. Tutti sanno che è possibile morire, anche gli europei. Nonostante questo, però, se qualcuno va dal tuo dirimpettaio e gli spara mentre sta cenando con la famiglia, la reazione empatica e il coinvolgimento saranno logicamente maggiori delle reazioni provocate dal sapere tramite un Tg delle 20 come a Pretoria la stessa cosa succeda di continuo e senza troppo clamore.
Luca Arleo
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