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Lug 07, 2015 Attualità, Italia
Gli attentati di fine giugno hanno lasciato un segno indelebile sul primo anniversario dello Stato Islamico. Le intelligence di mezzo mondo si aspettavano qualcosa e non sono state deluse. Ma la tempistica e l’effetto mediatico che hanno suscitato gli eventi – soprattutto l’attacco in spiaggia – ha impressionato in particolare l’opinione pubblica. Cosa fare e come sia stato possibile sono le domande che chiedono una risposta e mentre alla prima è ipotizzabile poterne dare una, per la seconda, quasi, è inutile anche cercarla. In molti difatti hanno provato ad enfatizzare le mancanze dei servizi segreti o la scarsa prontezza delle forze dell’ordine, ma additare loro sembra quasi voler sminuire gli avversari, dicendo che noi non eravamo in forma. La verità è che con l’IS c’è stato un cambio di passo nella modalità degli attacchi terroristici che rende molto più difficile prevenirne la minaccia.
Quando ad operare non sono più gruppi coordinati, ma singoli individui intenzionati ad immolarsi, la situazione si complica, tanto per gli investigatori che per i sistemi di sicurezza.
Lo Stato Islamico in questo ha avuto il triste merito di riuscire a rendere liquida la minaccia, coordinando con proclami nell’etere non necessariamente soggetti formati alla guerriglia e addestrati allo scontro, ma singoli disperati in cerca di vanagloria. Molti dei lone-wolves davanti ai quali ci troviamo, non hanno un passato sospetto o particolarmente importante da meritare una sorveglianza, e nel momento della loro attivazione è probabile che non ci siano particolari misure a prevenirne le mosse.
C’è poi un altro aspetto che ha reso ancora più difficoltoso il lavoro dei Servizi, ed è l’obiettivo di questi lupi solitari. Non più palazzi o aerei, bensì supermercati e spiagge. Minori ambizioni rendono più semplici la pianificazione e la realizzazione, lasciando pressoché invariato il risultato finale.
Diffondere la paura e il senso di insicurezza con uccisioni spettacolari, atti efferati e proclami minacciosi, quindi, è il marchio di fabbrica che dopo un anno possiamo dire assolutamente vincente per gli obiettivi dello Stato Islamico.Si potrebbe dire che in termini di appeal, l’IS sta diventando in campo terroristico quello che la Apple rappresenta oggi nel settore tecnologico.
Ed è proprio da qui che si dovrebbe cominciare l’opera di demolizione, dall’immagine vincente che aleggia attorno ad Al Baghdadi ed alla sua creatura nell’immaginario collettivo corrente. E se nella prevenzione di ipotetici attacchi dobbiamo affrontare difficoltà oggettive, in quanto a demolire siamo sicuramente meglio equipaggiati. Basta volerlo.
Le contromisure finora messe in campo, però, sembrano abbastanza scialbe. La coalizione che bombarda dal cielo ha sicuramente indebolito le posizioni sul territorio, ma la percezione è che il brand del califfato non sembri risentire molto dell’arretramento e il suo fascino al contrario continua a procuragli adesioni tanto di singoli avventurieri, vogliosi di un posto in paradiso, quanto da gruppi terroristici sparsi per il mondo. Ultima in ordine di tempo quella di alcune formazioni del cosiddetto Emirato del Caucaso.
Se quindi, l’intenzione della compagine a guida americana è realmente quella di minare la credibilità del califfo, sottraendo territorio alle sue conquiste e costringendolo così a scappare di villaggio in villaggio, come fatto con Osama, c’è da credere che l’impegno profuso fino a questo momento abbia bisogno di un’iniezione di virilità. I boots-on-the-ground che nessuno vuole mettere per paura si sporchino, sono e restano – purtroppo – l’unica maniera efficace per vincere una guerra. Se invece l’idea è quella di aspettare che a farlo siano le forze regolari irakene con la coalizione a coprirgli le spalle da 1000 metri di altezza, allora c’è da temere che l’unica vera minaccia che potrà togliere il sonno al califfo, saranno le zanzare che oseranno ronzargli nelle orecchie o le voci che circolano circa un tentato “golpe” sventato e poi severamente punito.
Luca Arleo
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