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Giu 03, 2015 Attualità, Italia
Ci voleva un giudice per portare un po’ di pace nelle notti insonni dei tassisti italiani. Uber è stato definitivamente messo al bando dal Tribunale di Milano con una sentenza di pochi giorni fa.
Nel giro di qualche settimana, così, sarà impossibile per i drivers privati continuare con i loro affari. Il servizio pop, seppur apprezzato, verrà interrotto pena un’ammenda molto salata.
Vittoria dei taxi su questa razza aliena che rischiava di minacciare il loro territorio di caccia? Forse si, ma non per questo c’è da festeggiare.
Le proteste dei tassisti certamente hanno fondamenta più che solide. La necessità di una licenza per il loro servizio, ad esempio, che arriva a costare in alcune città anche 150 mila euro, è uno di quei motivi per cui la concorrenza Uber è stata considerata sleale. Stesso discorso valga per i vincoli riguardo turni di lavoro e riposi obbligatori. Tutte motivazioni che comprensibilmente hanno irritato una categoria la quale ha percepito la novità come una minaccia e che si è scoperta poco attrezzata per farle fronte. Se però la reazione degli addetti ai lavori può definirsi comprensibile, meno chiaro è il ruolo ricoperto dal legislatore.
Innanzitutto non è ammissibile che a dirimere una questione tanto delicata debba intervenire il giudice nella più totale indifferenza della politica. Questa per prima, difatti, avrebbe dovuto colmare il vuoto normativo e dichiarare una volta per tutte se e come intendeva ammettere sulle proprie strade questi “parvenu”. Inoltre, come già avemmo modo di scrivere a riguardo, la presenza della nuova azienda sul mercato della mobilità cittadina avrebbe dovuto dare il via ad un processo di ripensamento e ammodernamento, tanto legislativo quanto economico, di tutto il comparto interessato. Se è vero che il tassista ha dovuto affrontare ingenti spese per potersi mettere “su strada”, questo non può di certo rappresentare un tappo ideologico a qualsiasi tipo di innovazione. E anche questa mancanza è da addebitare tutta alla nostra classe politica. Ammettere Uber senza riserve o vincolarlo a determinate regole che vanno dai costi di gestione alla tassazione dei guadagni, è lavoro squisitamente politico. Serve la volontà.
Anche i tassisti però devono fare la loro parte. Tutti ricordano i blocchi e gli scioperi davanti a possibili liberalizzazioni nel settore molto prima che Uber stessa nascesse, e l’atteggiamento passivo con cui il governo all’epoca dei fatti cedette miseramente, diede la misura della reale volontà di affrontare il problema. Se valesse sempre questo approccio davanti a qualunque tipo di innovazione, probabilmente non avremmo agenzie di viaggi on line, testate in formato elettronico e tutte una serie di novità che negli anni hanno di certo sottratto quote di mercato, ma non per questo sono state osteggiate o,peggio ancora, ignorate dalla politica.
Una svolta nel settore serve, e i dati lo provano.
In un mercato in cui si sono inserite in maniera prepotente le macchine di Enjoy e Car2Go, e nel quale Uber ha dimostrato di attirare consensi trasversali ad età e classe, non ha senso cercare di far finta che tutto vada bene. Il taxi dovrebbe a tutti gli effetti far parte del servizio pubblico a disposizione dei cittadini e se questa non è la percezione degli utenti – a causa o di tariffe troppo alte o di scarsa copertura del territorio – è ovvio che qualcosa debba cambiare.
Luca Arleo
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