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Mag 18, 2015 Attualità, Italia
Roma, dal corrispondente
Il 15 maggio scorso è stato il 67° anniversario della Nakba. Con questo termine che significa catastrofe, i palestinesi ricordano la nascita dello Stato israeliano e la conseguente espulsione ad opera delle milizie sioniste di circa 700.000 arabi dal proprio territorio. Espulsione che significò violenza e morti, un processo controverso di cui il Medio Oriente porta ancora i segni.
Vale la pena parlarne vista la scarsa copertura mediatica data all’evento e per evitare che alcuni episodi restino ai margini della storia mentre altri vengano indelebilmente stampati nella memoria collettiva grazie a più che giuste campagne di sensibilizzazione. La Nakba è uno di quelli il cui rischio di scomparsa è ancora più grande, vista la mancanza di uno stato unanimemente riconosciuto che possa patrocinarne il ricordo.
Proprio in questi giorni, a causa delle celebrazioni a seguito della ricorrenza, si sono verificati scontri tra manifestanti e forze di sicurezza israeliane, e tutto questo avviene in un periodo già di per sé poco tranquillo.
Dopo le recenti elezioni vinte da Netanyahu, in cui il leader per spingere il proprio nome ha usato una retorica apertamente razzista nei confronti della componente araba, questi conflitti non fanno che acuire ancora di più la distanza tra le parti, rendendo di fatto impossibile qualsiasi risoluzione del problema.
Non aiuta poi la continua espansione degli insediamenti abusivi che, in totale sprezzo di qualsiasi legge internazionale, vanno avanti indisturbati sotto gli occhi del mondo e dell’ONU, che “condanna” senza che questo preoccupi minimamente il condannato (vedere le risoluzioni inascoltate a riguardo).
Ovvio che per Israele non sia ammissibile marchiare il proprio Indipendence Day con un sottotitolo come quello di catastrofe, ma iniziare a fare i conti con le scomode fondamenta su cui poggia, aiuterebbe forse a pensare al futuro una volta sistemato il passato. E’ un dato di fatto che una parte dei propri cittadini viva il giorno della nascita dello Stato come una catastrofe per la propria gente, nasconderlo come si farebbe con la polvere sotto il tappeto, non aiuta.
Sono in molti gli ebrei di Israele che riconoscono come andarono i fatti e proprio lo scorso anno, ad esempio, da una collaborazione israelo – palestinese, è nata un’applicazione interessante per gli scopi che si propone: si chiama INakba e ricorda la storia dei villaggi e dei siti arabi laddove oggi sorgono soltanto insegne israeliane.
Le politiche di chiusura che però Tel Aviv continua a proporre non aiutano e stanno piuttosto lesionando l’immagine dello Stato ebraico agli occhi del mondo, e da più parti si sollevano proteste più o meno palesi che coinvolgono non solo singole organizzazioni ma diversi Governi nel mondo per denunciare i comportamenti sprezzanti di Israele.
Il Papa che definisce quello palestinese uno Stato e la Francia che con una risoluzione vorrebbe portare la questione all’ONU, sono solo le ultime di una serie di provocazioni che nascono dalla internazionalizzazione del problema palestinese e la reazione stizzita di Tel Aviv, che incolpa chiunque parli di non aiutare il processo di pace, non migliora la situazione.
In una lettera firmata da 16 ministri degli esteri europei indirizzata a Lady Pesc Federica Mogherini, ad esempio, si chiede vengano espressamente indicati quali prodotti provenienti da Israele siano effettivamente nati lì in modo da differenziarli da quelli originari della West Bank. Un modo per sottolineare come il secondo non faccia parte del territorio riconosciuto come israeliano dalla comunità internazionale nonostante l’occupazione che dura dal 1967.
Anche in questo caso la risposta israeliana è giunta puntuale, ma andando a paragonare questa etichetta con il marchio usato dai nazisti per identificare gli ebrei – parallelo troppo più grande rispetto al problema in questione – il FM Liberman ha dato però l’impressione di voler usare il senso di colpa europeo quale grimaldello politico. Non proprio un gesto nobile.
Luca Arleo
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