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Nov 22, 2011 Attualità, World Wide
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Incontriamo Massimo Giuntini, strumentista italiano che ha ormai raggiunto fama internazionale grazie al suo talento nell’unire l’antico e il moderno, il remoto e il presente, dal punto di vista tanto della musica tout court, quanto della strumentazione. Appassionato delle sonorità tradizionali (irlandesi, ma non solo), Giuntini ha visto i propri natali musicali nelle atmosfere evocative del progressive rock anni Settanta. Un’esperienza la cui impronta lo ha mai abbandonato nella sua formazione, se si va ad esplorare la sua storia artistica. Ricordato da molti per la militanza nei “combat folksters” Modena City Ramblers, da diversi anni Massimo Giuntini ha intrapreso un percorso di esplorazione personale dei suoni antichi e della loro applicazione in ambiti musicali contemporanei – molte ed eterogenee sono le collaborazioni artistiche che può vantare, tra le quali si incontrano nomi come Vinicio Capossela e Paola Turci. A questo meticoloso lavoro di (ri) costruzione musicale non sono mancati i riconoscimenti a livello extra-nazionale e finanche extra-continentale: su tutte va probabilmente ricordata la partecipazione alla colonna sonora del film di Martin Scorsese “Gangs Of New York”.
In un panorama in cui si fa arduo comprendere le future evoluzioni della più precisa delle arti (per dirla alla Guy de Maupassant) siamo andati ad indagare quali potenzialità ha la “carta” del traditional.
La sua carriera sembra aver sempre seguito due binari tra loro paralleli: la ricerca musicale da un lato, la ricerca più prettamente legata agli strumenti dall’altro. In che modo convivono queste due dimensioni? Ci sono dei fattori che fanno prevalere l’una piuttosto che l’altra?
Sono tutte fasi che si succedono: ovviamente all’inizio giocoforza mi sono dovuto concentrare sull’aspetto della ricerca sullo strumento, visto che prima lo dovevo imparare; parlo specialmente della uilleann pipe che non è esattamente immediata come comprensione. Poi via via è capitato di sentire influenze nuove, artisti diversi, che suonavano strumenti diversi perché provenienti da diverse aree geografiche o appartenenti a diversi ambiti, ed allora la ricerca musicale prendeva il sopravvento…Adesso non saprei, non credo ci siano fattori che fanno prevalere una cosa o l’altra, dipende più dal momento che altro.
La sua proposta musicale è per più di un motivo peculiare. Nella sua opinione e nelle sue prospettive, il percorso che lei sta seguendo è incentrato sulla riproposizione nell’era odierna di sonorità antiche o piuttosto sul dare a tali sonorità una possibilità di evoluzione futura?
Secondo me una cosa non esclude l’altra, anzi. L’idea iniziale era quella di rendere fruibile questo tipo di sonorità anche a chi non aveva mai sentito niente del genere, e per fare questo la strada da seguire era quella di arrangiare il tutto in una maniera, per così dire, familiare all’ascoltatore medio. Questa cosa automaticamente potrebbe (il condizionale è d’obbligo) costituire una evoluzione per certe sonorità, ma di sicuro non sono stato certo io ad inventare niente: gente come Davy Spillane o Donal Lunny avevano già reso un servizio infinitamente superiore al mio in tal senso.
Un aspetto interessante della sua musica è scoprire quale tipo di ascoltatori attira: lei che idea si è fatto della composizione e delle caratteristiche del suo pubblico?
Credo sia un pubblico molto vario: ci sono i giovani che amano i Modena City Ramblers e mi rispettano per il mio passato in quella band; ci sono quelli che amano la musica celtica, quindi persone – musicisti soprattutto – di ogni età; ci sono persone che sono partite conoscendomi dai Modena e ora preferiscono quello che faccio adesso, quindi sono un po’ meno giovani (esattamente come lo sono io, ah ah…) . Del resto la speranza di ogni musicista è quella di attirare gente di ogni tipo, essere trasversale rispetto ai gusti delle persone, giovani o meno giovani che siano, quindi non posso che essere contento.
Enrico De Zottis
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