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Set 12, 2010 Attualità, World Wide
Cambodia_Cambodge’s Picture from Flickr.com
Da Siem Reap a Battabang fino a Phnom Pehn, mi accompagnano i tetti ricurvi delle pagode mentre la Cambogia cambia volto, abitazioni e abitudini, sembra di viaggiare nel tempo, scorci di vita ormai dimenticata, fotografie in bianco e nero e racconti di un’altra generazione.
Phnom Pehn è una città vera, con grandi vialoni che riportano alla Francia colonialista e insegne internazionali che non permettono di dimenticare l’incalzante globalizzazione. Rotatorie e viadotti, cartelli pubblicitari, luci e traffico.
Siamo entrati in città quando chiudono le fabbriche e centinaia di donne dalle identiche cuffiette colorate si riversano nelle strade della zona industriale, aspettando di tornare a casa. Una via di mezzo tra il casino che si crea fuori da qualsiasi liceo al suono dell’ultima campanella e i movimenti femministi nell’Italia del dopoguerra.
La capitale della Cambogia si sta lentamente riprendendo, molte fabbriche hanno riavviato la produzione, ovunque ci sono cantieri edili e nuovi palazzi maestosi si affiancheranno ai bei edifici coloniali in decadimento e alle baraccopoli lungo il fiume, dove le capanne-palafitte alcune volte non hanno nemmeno il tetto di foglie di palma, costa troppo, ma di plastica. Bambini in strada si confondono nel traffico di SUV enormi e di sciami di motorini, ricchi stranieri si accompagnano a ragazze asiatiche in cerca di una favola, che duri un giorno o una settimana. Davanti al Palazzo reale e lungo il fiume vecchine che vendono fiori di loto si mescolano ai mendicanti e agli ambulanti con il loro carico di passerotti in gabbia: solo un dollaro per esprimere un desiderio, solo un dollaro perché la libertà porti fortuna.
Phnom Pehn è vita, la nuova che si mischia alla vecchia, contadini delle vicine campagne e ragazze con i capelli schiariti a imitazione del mondo occidentale. Incrocio di culture e fiumi, affascina con il suo pout pourri di stili, lo sguardo si può perdere in un orizzonte d’acqua laddove il Tonlé Sap si unisce al Mekong. Enormi masse d’acqua che si spartiscono la Cambogia e restano il sostentamento principale per più di 3 milioni di persone.
Anche il piccolo fiume che abbiamo navigato per arrivare a Battabang è il sostentamento per villaggi grandi e piccoli, composti da palafitte solide o capanne traballanti. Per diversi mesi all’anno le famiglie vivono in questo corso circondati solo da acquitrini e piante acquatiche e si muovono grazie alle loro simil canoe allungate, remando appollaiati dalla prua o dalla poppa. Spesso c’è una pagoda centrale eretta su palafitte di cemento e le abitazioni formano la via fluviale principale restandone ai lati. I bambini salutano i barconi di passaggio gridando “hello” e “goodbye” e potrebbero andare avanti all’infinito, se solo qualcuno continuasse a rispondergli.
Procedendo verso Battabang il fiume si stringe e diventa tortuoso, la palude lascia il posto a campi e risaie, fino ad arrivare agli argini più alti in prossimità della città. A Battabang ho visto i cartelli che avvertono del pericolo mine, di cui la Cambogia sembra essere ancora piena, sebbene diverse organizzazioni internazionali stiano cercando di bonificare campi e giungla. Ogni pompa, ogni risaia, ogni tempio, ogni pagoda riportata all’antico splendore sembra avere un cartello che attesta l’aiuto di USA, Russia, Europa, come se il mondo ora volesse riparare ciò che prima ha distrutto, come se si sentisse in colpa. Laos e Cambogia sono stati i due paesi più bombardati in assoluto e chissà per quanto ne vedremo le cicatrici addosso ai loro uomini. Nessun turista è mai saltato in aria, nessun turista ha mai avuto bisogno di coltivare un campo o una risaia perché rischiava di morire di fame e comunque nessuno si avventura su terreni poco battuti. Se si vuole un po’ di adrelina al limite si può arrivare fino al Preah Vihear, tempio di confine ancora conteso tra Cambogia e Thailandia, per cui però ora sembra si stia trovando un accordo.
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