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Mar 24, 2019 Attualità, World Wide
A questa novità dell’ultimo decennio, al cui impatto in termini di produzione del valore e del lavoro umano connesso, ho dedicato uno dei miei ultimi articoli, si sommeranno nei prossimi 5 anni gli effetti derivanti dall’introduzione massiccia della robotizzazione, dell’intelligenza artificiale, delle nanotecnologie e della genetica. Un vero e proprio salto quantico che attraverserà le nostre società con impatti difficilmente calcolabili (ma soprattutto non calcolati dalla politica sistemica che non sembra capace di vedere i processi reali in atto ma continua con l’illusione di ciò che fu). In altri termini, non solo il sistema di produzione del valore che abbiamo conosciuto tra l’Ottocento e il Novecento non è più in grado di sostenere la produzione della ricchezza necessaria alla vita di miliardi di persone (e deve vivere a spese del futuro attraverso il debito per illudersi di continuare a funzionare), ma alla novità della produzione di valore del ciclo immateriale (con aziende planetarie) si somma la rottura delle basi redistributive della ricchezza producibile, fondate sul lavoro salariato, una rottura che rischia di schiantare l’intero assetto sociale attraverso l’introduzione massiccia e parallela del nuovo salto tecnologico in arrivo. Lo stesso modello di convivenza sociale, basato sui modelli di welfare, e che ha a suo fondamento la sostanziale piena occupazione, è di fatto messo in discussione nella sua struttura di base.
Come se tutto ciò non bastasse, questi primi due cerchi di crisi si inseriscono in un cerchio ancora più grande, un livello di crisi che è fuori dalla portata di qualunque scelta di politica economica: l’insostenibilità del livello dei consumi a cui è arrivata la società umana, a prescindere dal modello socio-economico o politico sulla quale si basa. È il pianeta a dire: basta! Mentre i politici di tutto il mondo si affannano a promettere un rilancio, una ripresa, a garantire che la loro ricetta porterà ulteriore “sviluppo” (mentre quella del vicino, no) le concentrazioni di CO2 hanno già raggiunto il limite di non ritorno, il livello di riscaldamento sta sciogliendo i ghiacciai a tutte le latitudini, gli inquinamenti di plastica hanno trasformato gli oceani in una melma di residui petroliferi, i diserbanti (obbligati sempre più dalla cieca scelta delle colture intensive e da quelle OGM) avvelenano le persone, uccidono gli insetti e mettono in crisi l’esistenza dei volatili che di loro si nutrono. Potremmo continuare a lungo nella catena di conseguenze legate all’inquinamento, alla distruzione degli ambienti naturali dedicati alla libera vita animale, alle conseguenze di un modello di alimentazione che fa ammalare le persone, distrugge l’ambiente e trasforma la vita del pianeta in mera merce. Molti scienziati, da diversi anni, parlano di questi processi come dell’inizio della “VI estinzione di massa della vita sul pianeta”.
Ecco perché non possiamo pensare a ciò che sta accadendo come ad una crisi qualsiasi, una crisi “congiunturale”, ma come una vera e propria crisi sistemica, un passaggio d’epoca, una Transizione. La forma della rappresentazione del dibattito pubblico e lo stesso scontro politico potrebbe essere rappresentato come la lotta su chi debba avere le mani sul volante di un’auto lanciata a folle velocità, mentre nessuno si interroga sul fatto che il motore sia rotto in maniera irreparabile e soprattutto che i servomeccanismi che ne consentono la guida fuori controllo mentre, davanti all’auto, la strada si interrompe lasciando il posto ad un dirupo.
Ecco, in questi giorni abbiamo avuto, plasticamente, la rappresentazione dei nodi complessi che tale scenario mette davanti alla politica. Gilet gialli in Francia, lo scontro su “La via della seta” fino all’odio suprematista bianco in Nuova Zelanda, per non parlare dell’impasse strategico della politica inglese a sciogliere il nodo della Brexit (altro che le italiche difficoltà a prendere le decisioni…), dell’Algeria, dell’Albania, della Romania, della Polonia, degli USA. Fenomeni, spesso contraddittori, a tratti spontanei almeno nelle loro genesi, nei quali si intravvedono le tracce della dissoluzione del quadro di certezze basate sugli assetti sociali ed economici precedenti, ma che dalla politica vengono affrontati ancora nel quadro di una illusoria visione di ripristino di una normalità saltata. L’unica novità “sistemica” è rappresentata dalla mobilitazione di milioni di ragazzi per una politica nuova che pensi alla salvezza del pianeta. Certo, al momento, non si va oltre una presa di coscienza del punto di rottura a cui siamo giunti. Manca una analisi dei perché si è giunti qui, dei poteri esistenti dietro di essi e, soprattutto, di una visione che sappia indicare la capacità di saldare interessi di larghi strati sociali che porti verso un nuovo equilibrio. Ma questa mobilitazione (sul terzo cerchio della crisi) manifesta plasticamente il bisogno di una politica nuova, di nuove soggettività, di nuove analisi. Verso quali scelte orientare la nostra comunità umana? Vogliamo chiudere gli occhi di fronte alla complessità della crisi, di fronte alla vera e propria Transizione che la storia umana sta vivendo o pensiamo che potremmo affrontarla casomai continuando o inseguendo scelte continuiste che si basano su logiche del modello di sviluppo che sta crollando sotto i nostri occhi? Per dirla in sintesi: basta il ripristino dei confini nazionali, di una moneta locale, o di ulteriore debito per far aumentare la produzione, i consumi e quindi il lavoro e quindi il welfare novecentesco, per indicare la strada nuova di cui l’umanità oggi ha bisogno?
Eppure, oggi esistono conoscenze e tecnologie in grado di prospettare una riorganizzazione della vita, dei consumi, delle relazioni sociali, dei modelli produttivi che vanno oltre il modello che ha prodotto questa impasse e che è andato anche in crisi. Servirebbe una classe dirigente (a tutto tondo) che sviluppi tale consapevolezza. Che sappia uscire dai vecchi schemi e sappia fare discorsi di verità, anche scomodi, ma reali. Invece accade il contrario. Ci si illude di essere realisti continuando a voler dare risposte che non hanno nulla di strategico.
Parafrasando Pavese, viviamo una sorta di sdoppiamento dell’io che sembra suggerire che la politica di oggi “Guardi vivere, ma non viva”.
Sergio Bellucci
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