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Mag 09, 2016 Attualità, Italia
da Roma, il corrispondente
Si sono da poco chiusi i termini per la presentazione delle liste elettorali in vista delle elezioni comunali di Roma del prossimo 5 giugno.
Abbiamo preferito non dire nulla in merito alla competizione che si è accesa da subito attorno a questo banco di prova perché, già abbastanza sovraesposto come argomento, avremmo corso il rischio di ripetere cose già dette o pensate da altri.
Ora però un’analisi è possibile farla. Ora che le liste sono certe, o almeno così pensavamo fino a quando non abbiamo scoperto che Fassina farà ricorso contro l’esclusione delle sue candidature, un ragionamento è doveroso.
Pochi giorni fa, durante una chiacchierata alla fine di una riunione di lavoro, l’argomento caldo del momento è uscito in tutta la sua importanza; e la fatidica domanda è stata posta: “Per chi voti come sindaco di Roma?”.
La giornata era calda e la temperatura tale da invogliare la discussione in quel bel terrazzo in cui ci si trovava al centro della capitale: il dibattito era aperto.
Il dato uscito dalle prime battute è stato forse quello più scontato: la totale disaffezione che gli interlocutori hanno dimostrato nei confronti della politica. Sarà banale dirlo, ma la rivoluzione che avrebbe portato il governo Renzi, non sembra essere stata percepita come tale da molti Italiani, compresi quelli presenti sul terrazzo che nel frattempo si popolava di interlocutori aggiuntisi in corsa, durante la pausa pranzo.
La discussione si è coagulata per gran parte sull’affidabilità, reale o presunta, dei diversi candidati. La destra o pseudo tale, non è riuscita a produrre uno straccio di personalità capace di aggregare attorno a sé un consenso condiviso. Le politiche nazionali hanno pesato troppo in una competizione importante a livello di immagine, come quella romana.
In molti, considerando che la platea alle 13 era di circa 15 persone, hanno decretato una sostanziale incoerenza nel sostenere un candidato apertamente populista come Salvini, nelle cui maglie la Meloni rischia di perdersi. Un dato certo è che la confusione nel centro destra romano è da accreditare in maggioranza alla scarsa dose di chiarezza dimostrata dalla strana coppia. Ripercorrendo la genesi degli schieramenti di opposizione al governo nazionale, non si può negare che la Meloni abbia più volte cambiato idea forse seguendo troppo l’indole da comandante in capo del leader del carroccio.
Giachetti, sconta ancora la triste vicenda di Marino e i continui arresti e rinvii a giudizio che gli esponenti del PD non smettono di collezionare in maniera preoccupante. Se il candidato democratico avesse un voto per ogni detrattore, probabilmente la partita ad oggi sarebbe chiusa.
C’è poi l’universo relativo agli indipendenti dai partiti, quelli che hanno fatto cerchio attorno a Marchini. Di questo mondo di mezzo, nel giardino romano, si è detto di tutto e di più. È comunque interessante notare come probabilmente, a dispetto della sua estrazione tutt’altro che popolare, il bel Marchini riesca a spaccare la platea in maniera trasversale, a destra e sinistra. È probabile che però peserà in termini negativi, la scelta di apparentamento con Berlusconi che, a sentire i commensali con cui si discuteva (ormai sono arrivati i panini e ci si è uniti ad un pranzo improvvisato), non aiuterà nell’ascesa e soprattutto nel ballottaggio l’imprenditore.
Erano oramai arrivate le 14.00 e non eravamo stati in grado di capire bene quale fosse la propensione della maggior parte dei nostri ormai amici in termini di voto.
Fino a quando non è uscito il nome di Virginia Raggi.
In poco meno di 30 secondi le elezioni della nostra mini società raccolta al sole erano state vinte senza nemmeno l’onore delle armi per i perdenti. Un plebiscito. E mentre si brindava per la rivoluzione bianca portata a compimento, la voce di un dissidente, giunto quasi a fine spoglio, ha osato gettare un’ombra: “Ma perché votate Raggi, che ha fatto questa?”.
Il panico. Il silenzio.
“Ma come”, a quel punto incalzava il sovversivo, “nessuno conosce il programma del proprio sindaco? Ho capito, voi la votate proprio perché non la conoscete”.
Ce ne andiamo e mentre saliamo in macchina ci assale il dubbio che il vecchio oracolo possa avere in un certo senso ragione: la generalizzazione che ha portato a fare di tutta l’erba un fascio, ha prodotto la pigrizia mentale nell’analizzare se effettivamente un’alternativa sia migliore o peggiore. A noi forse serve soltanto un’alternativa e, se non la conosciamo, ancora meglio.
Luca Arleo
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