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Giu 20, 2011 Cosa bolle in Pentola
“Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra? Mentre gioivano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio?”
Si apre con una citazione dal Libro di Giobbe “The Tree of Life”, l’ultimo, denso, film di Terrence Malick, il J.D. Salinger della cinematografia mondiale. Proprio come l’autore del Giovane Holden, il cineasta infatti da molto tempo non si presenta in pubblico, non rilascia interviste, non riceve i premi che vengono assegnati alle sue opere, inclusa la Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes. Una misantropia oramai leggendaria, che raggiunge punte di isolamento creativo: pare che neppure la moglie abbia accesso allo studio privato dove il regista si dedica all’elaborazione delle proprie visioni.
Tornando al film, quinta opera di Malick, è valsa forse la pena attendere qualche tempo – come ha fatto chi scrive – dall’uscita nelle sale italiane (lo scorso 18 maggio) prima di accorrere a visionare la pellicola. Si è così potuto assistere, a mente ancora sgombra, al dibattito che la critica italiana, e non solo, ha riservato al film, collocabile dagli addetti ai lavori, a seconda di chi ne ha scritto in queste settimane, su di un asse oscillante tra il capolavoro epico e la “boiata pazzesca” di potemkiana memoria.
Il film, va detto, non si lascia avvicinare facilmente; allo stesso tempo non può lasciare indifferenti, così come non nasconde le sue (smisurate) ambizioni.
La trama, se così la si può definire, è semplice e maledettamente complessa allo stesso tempo.
La dolente storia di una famiglia americana degli anni 50’ si intreccia e annulla dentro il Creato, con l’incedere della storia dell’universo e del globo che divengono con-testo della crescita di tre ragazzini (il secondogenito perirà diciannovenne in circostanze che non sarà dato sapere) con la bella e giovane madre (Jessica Chastain), dolcissima ma succube di un padre severo e frustrato – sia per una mancata carriera da musicista, sia per alcuni fallimenti lavorativi – interpretato dal sempre più credibile Brad Pitt. Sean Penn interpreta invece uno dei tre bambini da adulto, protagonista del muto tentativo di riconciliarsi col ricordo del fratello scomparso, e quindi con quelle Grazia e Natura tra le quali la storia oscilla. Da notare come proprio la Natura, incontrastata, talvolta crudele, protagonista filmica per larghi tratti, nelle scene ambientate ai nostri tempi invece scompare, lasciando spazio – laddove prima si allargavano spettacolari panorami orizzontali – a vertiginose linee verticali di grattacieli d’acciaio, che paiono completamente deserti.
Il percorso del film è tortuoso. Soprattutto la prima parte sconta un qualche eccesso visivo e visionario. Ma proprio in questo tratto del film si evidenzia uno dei concetti interiori forse più riusciti, ovvero il rapporto tra due elementi indicibili, inenarrabili: il dolore della madre per la morte del figlio, un sentimento – per l’appunto – non raccontabile nella sua drammaticità; evento che però Malick annulla, anzi, annichilisce a fronte dell’immensità delle galassie, delle Ere, della Natura. Rapporto che può essere pure rinarrato – viceversa – in chiave diametralmente opposta: pur nella sconfinata immensità del cosmo e degli eventi di stelle e pianeti, la morte del figlio, e la Pietà della Madre, sono fatti di tale potenza che squarciano l’eterno e l’infinito.
Vivere secondo Natura, o secondo Grazia. Questo il dilemma che Malick consegna allo spettatore, che in un silenzio carico di pathos – raro di questi tempi nei nostri cinema – accoglie in sala il finale, del quale va però raccontata almeno un’immagine: sulla spiaggia dei primordi, sopra la battigia che ha visto l’uscita dall’acqua verso la terra dei primi abitanti di questa sfera d’acqua e roccia che vaga per il freddo universo, emerge la figura della madre, nella sua piena bellezza giovanile, che abbraccia teneramente il figlio oramai adulto. Un cortocircuito spazio temporale di struggente bellezza, di delicata malinconia e – per chi crede – di speranza fiduciosa.
Matteo Belloni
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