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Mag 17, 2020 Lifestyle, Società
Il 13 maggio del 1859 nasceva Kate Marsden.
Era l’ottava e la più giovane figlia dell’avvocato londinese J.D. Marsden. Dopo la morte di suo padre, Kate studiò da infermiera al Tottehnam Hospital (più tardi ribattezzato The Prince of Wales General Hospital) nel quartiere di Edmonton.
Nel 1877 venne mandata insieme ad altre colleghe in Bulgaria ad assistere i soldati russi, feriti durante gli scontri della guerra russo-turca. Terminate le ostilità tra i due imperi, la Marsden tornò in Inghilterra dove approfondì lo studio della tubercolosi e nel 1884 accompagnò la mamma in Nuova Zelanda, consigliata per il buon clima, per curare sua sorella Annie Jane, malata anche lei di TBC, e che morì pochi giorni dopo il loro arrivo. Ma Kate non tornò in Inghilterra; si stabilì a Nelson e nel 1885 divenne capo infermiera all’ospedale di Wellington, istituendo la sezione locale della St. John’s Ambulance Brigade, un’associazione di volontariato per l’insegnamento del primo soccorso, soprattutto verso i più poveri, compresa la popolazione locale dei Māori.
Mentre prestava servizio a Nelson ebbe notizia della morte di Padre Damien, il famoso “sacerdote dei lebbrosi” di Molokai, che la spinse ad intraprendere quella che sarebbe stata la missione della sua vita: dare sollievo ai “lebbrosi di Cristo”.
«Conobbi per la prima volta le devastazioni della terribile malattia durante la guerra russo-turca. Da allora fu il soggetto principale dei miei studi, volevo alleviare le pene dei lebbrosi. Avevo visto e sentito parlare di malattie e sofferenze gravi tra i poveri del mio Paese e tra le vittime della guerra. Per loro, almeno, c’erano parecchi sforzi cristiani e filantropici. Ma chi si sarebbe occupato dei lebbrosi nelle regioni lontane e selvagge del mondo? Allontanati dai loro simili, evitati, disprezzati e condannati ad una morte vivente – sono queste le persone che dovrebbero diventare l’oggetto della mia missione» (On Sledge and Horseback).
Convinta della sua scelta, Kate si dedicò ai malati di Molokai, ma ben presto indirizzò il suo interesse ai lebbrosi dell’India britannica. È in questo periodo, il 1890, che Kate fu invitata a recarsi a San Pietroburgo per ricevere una medaglia dalla Croce Rossa Russa. La Russia, pensò, poteva essere un buon punto di partenza per uno studio approfondito sulla lebbra e da lì, avrebbe potuto attraversare il Medio Oriente ed arrivare in India, sua destinazione finale. A Costantinopoli incontrò un medico inglese che le parlò delle proprietà terapeutiche di una pianta rinvenuta in Jacuzia, nella Siberia orientale, in grado di alleviare le sofferenze dei pazienti affetti da lebbra e, in alcuni casi, di curarli. Sulla base di questa informazione cambiò idea, e decise di partire per la Siberia.
La presero per pazza: come poteva una donna intraprendere un viaggio di tale portata? Il 1febbraio del 1891, Kate prese il treno per Zlatoust, una città situata negli Urali, a poche centinaia di miglia da Mosca. A quel tempo, la ferrovia transiberiana era ancora in fase di pianificazione e da qui in poi Kate avrebbe viaggiato in slitta. Era ben equipaggiata per il rigido clima siberiano, e noi lo sappiamo perché è lei stessa a dircelo: «Avevo una serie di indumenti che ho avuto modo di apprezzare con il passare dei mesi: una veste foderata di flanella, un cappotto maschile a piumino, con le maniche abbastanza lunghe da coprire interamente le mani, il collo di pelliccia abbastanza in alto da coprire la testa e il viso. Quindi una pelle di pecora che mi arrivava ai piedi, e dotata anche di un colletto indossato su quello di pelliccia. Poi, sopra la pelle di pecora, ho dovuto mettere una pelliccia di pelle di renna. Un lungo e spesso paio di calze, fatte di lunghi capelli, e sopra un paio di calze da caccia più spesse, usate dagli uomini e, ancora sopra, un paio di stivali russi di feltro, che arrivano fin sopra il ginocchio; e sopra gli stivali, un paio di valenkie di feltro marrone».
Inutile dire che, così bardata, la mobilità di Kate era fortemente limitata e aveva non poche difficoltà a salire sulla slitta sulla quale, inoltre, non fu facile viaggiare. Blocchi di neve ghiacciata, buche e solchi sul terreno, la sbattevano violentemente da una parte all’altra del mezzo, in continuazione. Divideva i disagi del viaggio con un’amica, Ada Field, che le faceva da interprete.
Ekaterinburg fu la loro prima tappa. Qui visitò l’ospedale locale e la prigione, cosa che avrebbe fatto in tutte le città dove sarebbe arrivata. Da Ekaterinburg si spostarono a Tjumen, – «una città vecchia, con strade lunghe e larghe e diverse chiese, generalmente dipinte di bianco, con cupole verdi, che danno loro un aspetto luminoso e fresco. L’ospedale, mi dispiace dirlo, è il peggiore che io abbia mai visto», – a Tobolsk e poi a Tukalinsk, nella Russia siberiana sudoccidentale. “Il nostro viaggio da Tukalinsk a Omsk è stato compiuto senza particolari contrattempi, ma con i soliti disagi. Con mio grande dispiacere, Miss Field è dovuta tornare a casa per problemi di salute. La prigione di Omsk era in ottime condizioni, così come l’ospedale militare”.
Le tappe si susseguono una dopo l’altra. E durante il percorso, Kate incontra esiliati politici con a seguito la famiglia, bambini malnutriti: per tutti ha cibo e tè come piccolo conforto. Raggiunge Tomsk, Krasnoyarsk, Irkutsk, dove arriva in condizioni pietose, riesce a malapena a camminare.
A giugno del 1891 è a Yakuts, sul fiume Lena, la città più fredda del mondo. Qui incontra il vescovo Meletie che le dice che non ci sono strutture disponibili per curare in maniera adeguata i lebbrosi, e le conferma l’esistenza dell’erba di cui Kate aveva sentito parlare, dandole alcuni campioni da riportare a Mosca. Non è abbastanza per l’indomita Kate. Pensa a come raggiungere Viliusk per vedere di persona la difficile situazione dei lebbrosi. Scopre che il posto può essere raggiunto solo a cavallo.
«Abbiamo iniziato il nostro lungo viaggio, 2000 miglia, a cavallo. La nostra cavalcata è stata curiosa. Consisteva di quindici uomini e trenta cavalli. Indossavo una giacca con maniche molto lunghe e avevo il distintivo della Croce Rossa sul braccio sinistro. Avevo una pistola, una frusta e una piccola borsa da viaggio, appesi alle spalle. Ho cavalcato come un uomo perché i cavalli di Yakutsk sono così selvaggi che era impossibile cavalcare in modo sicuro, lateralmente come fa una donna. Inoltre, l’assenza di strade, e la propensione degli animali ad inciampare sulle pietre e tra le radici degli alberi con gli zoccoli che affondano nel fango hanno reso il viaggio estremamente difficile». (Continua…)
Giovanna Scatena
(Giornalista professionista)
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